Andando a prendere Gengis Mao per il viaggio tradizionale, familiare, sul lettino che lo porterà dalla camera da letto alla Sala di Chirurgia, Shadrach si domanda come reagirà quando si troverà faccia a faccia con il Khan. Sicuramente la sua espressione tradirà la consapevolezza da poco acquisita; sicuramente Gengis Mao, con i suoi quasi novant’anni di astuzia, capirà al volo che la sua vittima designata ha mangiato la foglia. Ma Shadrach scopre che la sua misteriosa tranquillità di spirito non lo abbandona neanche quando si trova a guardare il Khan negli occhi. Non prova niente, né paura né rabbia né risentimento: il Presidente è il paziente, lui è il medico, i sensori pulsano e scattano, lo caricano di informazioni, e questo è tutto, nel loro rapporto niente è mutato. Guarda Gengis Mao e pensa: “Tu stai complottando per rubarmi il corpo”, e non succede niente, nessun effetto. Tutto rimane irreale per lui.
— E allora, come sto questa mattina, Shadrach? — chiede Gengis Mao, gioviale.
— Splendidamente, signore. Mai stato meglio.
— Mi tagliate via il cuore, allora?
— Solo l’aorta, per questa volta — dice Shadrach. Fa un cenno agli attendenti, che conducono via il Presidente.
Ed eccoli lì, ancora una volta, tutti riuniti nella Sala di Chirurgia: il Presidente, il medico, il chirurgo capo, l’anestesista, gli infermieri e altri assistenti medici vari, tutti ben disinfettati, in camice e mascherina, nel bagliore dell’impianto di illuminazione, le bolle asettiche sono state sigillate, i filtri e le pompe pompano e filtrano, i computer emettono lucine rosse, verdi, gialle come in un’allegra scenografia teatrale, la nuova sezione di aorta (era di Buckmaster?) se ne sta in attesa nel suo contenitore, fresca e sana, pronta a essere installata nell’addome di Gengis Mao.
Warhaftig, sicuro di sé, sereno, si prepara ad aprire ancora una volta il corpo minuto, sottile di Gengis Mao.
— Pressione? — domanda.
— Normale — dice Shadrach.
— Respirazione?
— Normale.
— Piastrine?
— Normali. Normali. Tutto normale.
Shadrach sa bene che se Gengis Mao dovesse morire sotto i ferri, non ci sarebbe nessun Progetto Avatar a minacciarlo: nessuno dei tre progetti è ancora pronto per essere utilizzato, e se il Khan non sopravvive al trapianto, questa sarà la sua fine, senza speranza di reincarnazione; forse anche la fine del Comitato Rivoluzionario Permanente, tutta la fragile società della depolarizzazione centripeta si polarizzerebbe e si centrifugherebbe verso il caos nell’istante in cui la figura leggendaria di Gengis Mao sparisse dalla scena. Non sarebbe difficile riuscirci. Urtando il gomito di Warhaftig, magari, proprio mentre lui sta manovrando il laser chirurgico nelle viscere del Presidente; scusandosi umilmente subito dopo, ma ormai il danno sarebbe fatto. Oppure, in maniera più sottile, potrebbe fuorviare l’équipe operatoria con informazioni sbagliate, falsando le sue rilevazioni dall’interno di Gengis Mao: loro si fidano del dottor Mordecai, seguiranno i suoi dati senza preoccuparsi di confrontarli con le cifre sulle sonde e sui misuratori, e probabilmente lui riuscirebbe a causare un danno irreversibile al Presidente, una carenza fatale di ossigeno, roba del genere, prima che Warhaftig fosse in grado di rendersene conto. E poi le scuse, non riesco proprio a capire come i segnali potessero essere così distorti. Non deve certo preoccuparsi della possibilità di finire sotto accusa per imperizia: se salta il Khan, tutto l’edificio crolla su se stesso, a quel punto è ciascuno per sé. Ma Shadrach non lo farà. Shadrach non farà niente a Gengis Mao quest’oggi, non lo farebbe neanche se sapesse che il Khan intende attivare il Progetto Avatar prima di martedì prossimo. Il dottor Mordecai, in pericolo di vita o meno, rimane un medico, un medico dedito alla propria missione, ancora abbastanza giovane e ingenuo da prendere sul serio il giuramento di Ippocrate. Ha giurato di tenere sante e pure la sua vita e la sua arte. Ha fatto voto di aiutare i malati e di astenersi da ogni torto e da ogni danno intenzionale. Così sarà. Shadrach Mordecai, Dottore in Medicina, Harvard ’01, non tradirà la sacra fede. Gengis Mao è il suo paziente; Gengis Mao non morirà per mano di Shadrach Mordecai, oggi. Forse questa è semplice stupidità, ma in essa c’è pure una certa grazia.
L’operazione procede sul velluto. Un taglietto, ed ecco che se ne esce la sezione malandata dell’aorta di Gengis Mao. Due cuciture, e si innesta il pezzo di ricambio. Macchine cuore-polmone mantengono la circolazione al ritmo giusto. Il Khan osserva tutto, cosciente, con gli occhietti vivaci, annuendo tra sé e sé di quando in quando nei momenti in cui Warhaftig esegue delle veroniche, degli entrechat , delle infilate particolarmente ammirevoli. Pare sapere precisamente cosa sta succedendo; ha passato più tempo di me a osservare chirurghi al lavoro, riflette Shadrach, e probabilmente sarebbe capace di operarsi da solo con una certa abilità, ormai. Le dita eleganti di Warhaftig chiudono elegantemente l’incisione. I tessuti sono freschi e arrossati, essendo stati aperti per il trapianto del fegato meno di due settimane fa, e per questo sono necessarie alcune misure speciali di profilassi: ma il chirurgo esegue tutto a perfezione con l’abituale disinvoltura. La bocca di Gengis Mao è contratta in un sorriso di approvazione quando l’operazione è terminata. — Un bello spettacolo — dice a Warhaftig. — Due orecchie e la coda!
Shadrach se ne va con il tratto di aorta che è stato tolto al Khan. Dice a Warhaftig, non che a Warhaftig importi qualcosa, che intende sottoporlo a degli esperimenti; ma cosa potrebbero dirgli degli esperimenti fatti su questo pezzo sbrindellato di tessuto, su questo tubicino disfatto, che lui non sappia già? Lo vuole perché è un pezzo autentico del corpo di Gengis II Mao IV Khan, e Shadrach ha lo spirito del collezionista: questo diventerà un fiore all’occhiello del suo piccolo museo di curiosità mediche. Una reliquia di uno dei pazienti più famosi della storia. Shadrach conosce un aneddoto, probabilmente apocrifo, che racconta come il medico che eseguì l’autopsia sul corpo di Napoleone avesse rimosso il pene imperiale e l’avesse tenuto come souvenir dell’Imperatore, lasciandolo in eredità a un collega che infine lo vendette a un prezzo altissimo, e così via, passando da una collezione medica all’altra, finché non sparì del tutto nel trambusto di qualche guerra del ventesimo secolo. Storie del genere, Shadrach lo sa, sono state raccontate a proposito di pezzi vari del corpo di Hitler, Stalin, George Washington, Caterina di Russia. A Shadrach dispiace di aver raggiunto la sua posizione troppo tardi per raccogliere qualcuno degli organi davvero significativi di Gengis Mao: un rene, per esempio, o un polmone, il fegato, il pancreas; ma erano tutti spariti già molto prima che Shadrach arrivasse sulla scena, gli organi naturali del corpo del Khan, rimossi e sostituiti, in certi casi più di una volta, con organi trapiantati. Shadrach non trova che abbia molto senso conservare nella sua collezione il quarto fegato di Gengis Mao, o l’ottava milza, o il tredicesimo rene; sebbene riconosca che questi inquilini temporanei del Khan sono oggetti personali di Gengis Mao più intimi delle sue pantofole, per esempio, o del suo orologio da polso. Ma preferisce il somatoplasma genuino, e un pezzo di aorta autentica è il meglio che possa trovare in questo momento.
C’è l’aneurisma, grosso e maturo, pronto a scoppiare. Ancora qualche giorno e avrebbe potuto cedere, puf! , e niente più Gengis Mao. Il Presidente e Mangu, ora di sabato, avrebbero potuto condividere lo stesso funerale, se Shadrach non avesse avvertito degli strani ticchettii nei sensori del sistema circolatorio, o non ne avesse correttamente decifrato l’importanza. Dunque ho salvato la vita al Khan, non per la prima volta, ed eccolo una volta ancora riportato a una salute perfetta. Benissimo. Benissimo. Che possa vivere cinquecento anni, e che io resti per sempre il suo medico personale!
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