Shadrach dice: — Potrei parlare con la dottoressa Crowfoot, per favore?
— Sono desolato. La dottoressa Crowfoot non c’è. Posso esserle ut…
— La trovo questo pomeriggio?
— La dottoressa Crowfoot è fuori tutto il giorno, dottor Mordecai.
— Ho bisogno di mettermi in contatto con lei.
— È nel suo appartamento, dottore. Non sta bene. Ha chiesto di non essere disturbata.
— Malata? Qual è il problema?
— Niente di grave. Febbre, mal di testa. Mi ha chiesto di dirle, se lei avesse chiamato, che stiamo ancora studiando il problema della ricalibrazione, ma che al momento non abbiamo niente da riferire, non…
— Danke, dottor Eis.
— Bitte, dottor Mordecai — replica rapido Eis, mentre Shadrach toglie il collegamento.
Sta per chiamare l’appartamento di Nikki. No. Ne ha avuto abbastanza di evasioni, scuse, procrastinazioni, fughe. È fin troppo facile per lei fare numeri del genere quando Shadrach chiama. Andrà semplicemente da lei e suonerà il campanello, senza aspettare di essere invitato.
Lei lo lascia in attesa davanti alla porta per un bel po’ prima di reagire, anche se sa certamente, grazie al visore, chi c’è fuori. Poi dice: — Cosa vuoi, Shadrach?
— Eis mi ha detto che non stavi bene.
— Non è niente. Un mal di pancia un po’ fastidioso.
— Posso entrare?
— Sto cercando di dormire un po’, Shadrach.
— Non mi tratterrò molto.
— Ma sono in uno stato spaventoso. Preferirei non avere visite.
Shadrach sta per allontanarsi dalla porta ma, pur sapendo che la sua insistenza maniacale non gli porterà niente di buono, non riesce ad accettare di andarsene senza averla vista. Non riesce a trattenersi, e sente la sua stessa voce dire: — Lascia almeno che veda se posso prescriverti qualcosa, Nikki. Io sono un dottore, dopotutto.
Un lungo silenzio. Disperato, prega che nessuno che lo conosce capiti da quelle parti a sorprenderlo: là fuori nel corridoio, come un Romeo in preda alle pene d’amore che supplica di lasciarlo entrare.
La porta, finalmente, si apre.
Lei è a letto, e ha effettivamente l’aspetto malato, la faccia rossa e febbricitante, gli occhi iniettati di sangue. L’aria nella stanza è quella degli ospedali, ferma e viziata. Shadrach si dirige subito ad aprire la finestra; Crowfoot rabbrividisce e gli chiede di non farlo, ma lui la ignora. Quando lei si alza a sedere, Shadrach vede che è nuda, sotto la coperta. — Ti prendo un pigiama, se hai freddo.
— No. Odio mettere il pigiama. Non so se ho freddo o caldo.
— Posso visitarti?
— Non sono tanto malata, Shadrach.
— In ogni caso, sarei più contento se ne fossimo sicuri.
— Pensi che mi si stiano per decomporre gli organi?
— Un controllo non può far male, Nikki. Ci vorrà un istante.
— È un peccato che tu non possa farmi una diagnosi come quelle che fai a Gengis Mao, semplicemente leggendo le macchinette che ti porti dentro. Così non mi infastidiresti proprio.
— No, non posso farlo. Ma faremo in fretta.
— Okay — gli dice lei. Durante questa conversazione, non l’ha guardato negli occhi una sola volta, e questo lo turba. — Va’ avanti. Gioca al dottore con me, se è proprio necessario.
Lui la scopre, e si accorge di sentirsi curiosamente riluttante a esporla in questa maniera, come se la loro recente separazione lo avesse privato dei privilegi tradizionali di un medico. Ma dopotutto lui ha avuto un solo paziente in tutta la sua carriera, essendo andato direttamente al servizio di Gengis Mao appena uscito dalla scuola di Medicina, non avendo fatto altro che ricerca gerontologica fino a quando non è stato chiamato a servire il Khan in qualità di medico personale; non ha mai sviluppato la tradizionale indifferenza dei medici praticanti nei confronti della carne: questa non è una paziente anonima, questa è Nikki Crowfoot, la persona che lui ama, e il suo corpo nudo è qualcosa di più di un oggetto per Shadrach. Dopo qualche istante, però, raggiunge questa impersonalità, trasforma i seni di lei in semplici globi di carne, le cosce in colonne asessuate di pelle e muscoli, e la visita senza turbarsi ulteriormente, le sente il polso, le ausculta il petto, le palpa l’addome, tutte le solite cose. L’autodiagnosi risulta accurata: nessun segno di decomposizione organica, solo un malessere passeggero, un po’ di febbre, niente di importante. Molta acqua, riposo, qualche pastiglia, e tornerà a posto in un giorno o poco più.
— Soddisfatto? — lo deride lei.
— Ti è così difficile accettare il fatto che mi preoccupo per te, Nikki?
— Ti avevo detto che non avevo niente di grave.
— Ero preoccupato lo stesso.
— Allora, visitare me in realtà è stata una terapia per te?
— Immagino di sì — ammette Shadrach.
— E se tu non fossi accorso a fornirmi i benefici delle tue capacità mediche altamente qualificate, a questo punto sarei riuscita a prendere sonno.
— Mi dispiace.
— Non importa, Shadrach.
Nikki si volta, raggomitolandosi infastidita sotto la coperta. Shadrach rimane in piedi davanti al letto, muto; vorrebbe fare mille domande che non possono essere fatte, vorrebbe sapere da dove viene quell’ombra che è caduta tra di loro, perché lei è diventata misteriosamente così distante, così fredda, perché non vuole nemmeno guardarlo negli occhi quando gli parla. Dopo qualche istante, invece, dice: — Come va il Progetto?
— Non hai parlato con Eis? Stiamo ricalibrando. Ci vorrà un po’ prima che siamo pronti per un nuovo donatore. Tutta questa storia è una rottura di palle colossale.
— Di quanto vi ha ritardato, precisamente?
Crowfoot scrolla le spalle. — Un mese, se siamo fortunati. O tre. O sei. Dipende.
— Da cosa?
— Da… da… oh, Cristo! Senti, Shadrach, non ho proprio voglia di parlare di lavoro in questo momento, non sto bene. Capisci cosa vuol dire? Mi fa male la testa. Mi fa male la pancia. Mi brucia la pelle. Voglio riposarmi un po’. Non voglio discutere i miei problemi scientifici del momento.
— Mi dispiace — dice lui ancora una volta.
— Mi lasceresti sola, adesso?
— Sì. Sì. Ti chiamerò domani mattina per sentire se stai meglio, va bene?
Nikki farfuglia qualcosa con la bocca contro il cuscino.
Shadrach fa per incamminarsi. Ma prima di andarsene, fa un ultimo tentativo di raggiungerla. Sulla soglia, dice in tono neutro: — Oh… hai sentito l’ultima voce che circola? Sulla morte di Mangu?
Lei geme, stoica. — Non ho sentito niente. Dimmi. Sentiamo. Cos’è?
Shadrach soppesa le parole, con cura, per non avere la sensazione di rivelare la confidenza che gli ha fatto Katya Lindman: — Si dice che Mangu si sia suicidato perché qualcuno collegato al Progetto Talos gli ha raccontato che sarebbe stato il donatore per Avatar.
Nikki scatta a sedere, gli occhi spalancati, il volto acceso, le guance rosse di concitazione.
— Cosa? Cosa? Non l’avevo sentita!
— È solo una storia che circola.
— Chi sarebbe stato a dirglielo?
— Non lo dicono.
— Proprio Lindman, è così? — chiede Nikki.
— È solo una voce, Nikki. Non fanno il nome di nessuno in particolare. In ogni caso, Katya non farebbe mai qualcosa di così poco professionale.
— No, eh?
— Non credo proprio. Se davvero è successo, è stato probabilmente un assistente ambizioso, un programmatore di terzo grado. Se davvero è successo. Potrebbe non esserci niente di vero.
— Però suona vero — dice lei. Il petto le si gonfia, la pelle è lucida di sudore. — C’erano forse modi migliori per Lindman di sabotare il mio lavoro? Oh, come ho fatto a non pensarci? Come ho fatto a non immaginare…
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