Potrei vivere ancora di più, molto di più.
Cosa ricordo della mia infanzia? Quanta neve si accumula in ottantacinque anni! Mi sembra di vedere la faccia di mio padre, magra come la mia, le sopracciglia marcate, gli zigomi forti. Yumzhaghiyin Choijamste dell’allevamento di cammelli di Bogdo-Goom, successivamente Eroe dell’Ordine di Lenin. Ferito nella battaglia di Khalkhin Gol nel 1939, poi terzo segretario dell’Agenzia Agricola… vedi, Padre, mi ricordo, mi ricordo! Il padre di Gengis Mao, morto nel 1948 in un incidente aereo tra Mosca e Ulan Bator, di ritorno da una conferenza sul grano. Quei miseri jet russi, che venivano sempre giù. Era poi un jet? È così tanto tempo fa… ma i jet c’erano già, allora, no? Gli Ilyushin, i Tupolev. Potrei andare a controllare. Sei morto da sessantadue anni, Yumzhagiyin Choijamste. I bambini nati il giorno della caduta del tuo aereo sono dei vecchi ormai. E io sono ancora qui, Padre. Io sono Gengis Mao. Mi ricordo di te, all’allevamento di cammelli. Sono in piedi sulla neve appena caduta, e mio padre tira un cammello per la cavezza. Il cammello torreggia sopra di me, come una montagna; muso lungo e brutto, labbra gommose, occhi dolci e inespressivi, con appena una traccia di disprezzo sottile. Il cammello mi si avvicina e la sua lingua enorme mi percorre le guance, le labbra. Un bacio! Quell’alito acre. La risata di mio padre. Mi prende tra le sue braccia, mi stringe forte. Com’è grande! È più grande del cammello, per me. Ho tre anni, quattro forse.
E mia madre? Mia madre? Non l’ho mai conosciuta. Calpestata dagli yak durante una tempesta di neve spaventosa, quando non sapevo ancora parlare. Ho dimenticato perfino il tuo nome, Madre. Potrei andare a vedere. Ma dove…? Dove…?
Shadrach fa una pausa, riflette, ci ripensa. È plausibile? Coerente? Il tono è quello giusto, ma i “fatti”? Li verificherà. Forse dovrebbe modificare qualche dettaglio importante? Cambierebbe qualcosa? Vediamo…
17 ottobre 2012
È il mio compleanno. Oggi Gengis Mao compie novantadue anni, anche se ufficialmente si dice che ne abbia solo ottantasette. D’altra parte, c’è chi ritiene che io abbia da tempo passato i cento. Questo vorrebbe dire che sono nato attorno al 1905. Come possono crederlo? 1920… non è già brutto abbastanza? Wilson, Clemenceau, Henry Ford, il generale Pershing, Lloyd George, Lenin, Trotzkij, Sukhe Bator… uomini dei miei tempi. E io sono ancora qui, nel 2012 dell’era cristiana, io, già Namsan Gombojab, nato a Sain-Shanda, ultimogenito del pastore di yak Khorloghiyin Gombojab, che…
No. Cambiare i dettagli è futile. Il suo nome originario potrebbe essere Choijamste, Gombojab, Ochirbal, uno qualunque va bene; e potrebbe essere nato nel 1925, nel 1920, nel 1915, perfino nel 1910; potrebbe aver fatto carriera nel ministero della Difesa, nell’Agenzia per la Redistribuzione Agraria, nel commissariato alle Telecomunicazioni; mettici tutti i dettagli che vuoi, a mo’ di decorazione: non farà la minima differenza. I lineamenti essenziali dell’animo di Gengis Mao sono in profondità, sono marcati, e sono loro il tuo argomento, Shadrach, le sue impressioni, la sua visione del mondo. Non i dettagli insignificanti del quando e del dove.
14 maggio 2012
Il trapianto di fegato si è concluso solo due ore fa, ed ecco qua Gengis Mao, vecchio e rugoso, ma ancora vivo, eccome; è ben sveglio, pieno d’energia, attento. Sono orgoglioso di lui. La sua irrefrenabile vitalità. La sua insopportabile capacità di assorbire tutto. Onore a te, Gengis Mao! Ah! Sento un dolore all’addome, ma non è niente di cui lamentarsi. Il dolore è il segno che siamo vivi, che proviamo sensazioni, che reagiamo agli stimoli. La pesantezza che mi aveva colto quando il vecchio fegato aveva cominciato a funzionare male se ne sta già andando. Sento che il mio sistema si sta ripulendo. È come se fluttuassi per aria, due metri sopra questo letto. Galleggio sopra tutto il bellissimo macchinario che pompa liquidi benefici nel mio guscio mortale. Com’è bello il dolore! Quella pulsazione insistente, in basso, sul fianco… bom, bom, bom, una campana che suona all’interno del vecchio Gengis Mao, lo incita a vivere una lunga vita. Diecimila anni all’Imperatore! I miei abilissimi medici trionfano ancora una volta. Warhaftig, Mordecai.
I miei medici. Warhaftig non è che una macchina. Mi annoia, ma è perfetto. Adoro guardare le sue mani sparire dentro al buco nella mia pancia. Riemergere tenendo stretto un grumo rosso e inerte, gonfio di malattia: gettarlo da parte, ricucire al suo posto un organo nuovo. Warhaftig non sbaglia mai. È brutto però, con quel naso piatto, quelle labbra girate all’ingiù. Pelle bianca malata, morta. Un genio, ma brutto e noioso, nient’altro che una macchina. È mai stato giovane, Warhaftig? Si è mai accovacciato dietro a un cespuglio, a spiare donne nude fare il bagno in un torrente? Non lui. Oh, no, non lui. Ridere, rotolarsi nell’erba? Warhaftig? Mai.
Shadrach è più interessante. Elegante, arguto, un bel corpo forte, una mente fresca, sveglia. È bello guardarlo. La pelle nera. Non ho mai visto un nero prima dei quarant’anni, quando una delegazione della Guinea ha fatto visita al mio dipartimento. Quelle facce lucide, quasi violacee, quei capelli densi e intrecciati, quelle vesti tribali. Occhi di un bianco abbagliante, le palme delle mani bianche, come dei gorilla, voci profonde; strani, strani. Parlavano francese. Shadrach non è come quegli africani, se non per quell’intelligenza attenta, seria, che hanno in comune. È bruno, non nero; molto alto, molto americano, non fa proprio pensare alla giungla. A volte con me si produce in lezioni, come se fossi un ragazzino, un bambino birichino. Si preoccupa sempre della mia salute. Coscienzioso, ecco cos’è, laborioso, con la dedizione tipica di certi giovani. È troppo sano di mente per stare qui tra noi. Gli manca… che cosa? La cupezza, posso dire una cosa del genere a proposito di lui ? Sì. È la cupezza interiore che gli fa difetto: in lui non ci sono demoni. O lo sto sottovalutando? Ci devono essere demoni dentro chiunque, perfino dentro a quell’automa di Warhaftig, perfino dentro al tranquillo, spensierato Shadrach Mordecai. È molto giovane. Questo mi piace. Ha almeno cinquant’anni meno di me, eppure siamo dei contemporanei, siamo tutti e due uomini del presente; tutti e due sconosciuti fino a non molto tempo fa, anche se io ho atteso così a lungo per diventare quello che sono, e lui è diventato se stesso così giovane. Sa sorridere bene. In lui non c’è ancora traccia di cinismo. Ha vissuto la Guerra Virale e tutte le brutture che l’hanno seguita, ma è tranquillo, ha fiducia nel futuro, pensa solo a curare i suoi simili. Curerebbe perfino quelli che hanno messo in schiavitù i suoi antenati. Mentre io mi vendicherei mille volte con i miei oppressori; ma d’altronde, io sono di sangue tataro, e noi siamo fieri, feroci, siamo dei lupi del Gobi, mentre lui è figlio di placidi coltivatori della giungla. Tutte le mattine si reca al Vettore di Sorveglianza Uno, e osserva la gente che marcisce di qua e di là per il mondo. Crede che non lo sappia. Mentre osserva, io osservo lui. Il suo volto magro e morbido, i suoi occhi tristi e intelligenti. È così addolorato per quelli che stanno marcendo dentro. Un uomo compassionevole. Come un bambino. Non è un santo, ma ha la stoffa del martire.
23 gennaio 2012
Il Comitato in sessione plenaria. Horthy, Labile, Ionigylakis, Eyuboglu, Lapostolle, Farinosa, Parlator, Blount. Tutti i burocrati migliori. Ronzano senza sosta, bzzz, bzzz, bzzz, e io lì ad ascoltare tutto, senza ascoltare. Sono delle macchine. Il Comitato stesso è una macchina che ho costruito io, un meccanismo delicato quanto inutile, come un orologio senza lancette. Quando morirò io, si sfalderà da solo, se quando morirò sarò davvero morto. Ho concesso a Mangu di presiedere le riunioni. Passo dopo passo, lo incoraggio a convincersi della propria responsabilità, gli dono l’ombra dell’autorità. È affascinato da quella massa di burocrati spaventosi, quegli apparatchik , così come un ragazzo è affascinato dal ronzio delle mosche sul letame, e non parliamo del letame stesso. Era questo che avevo in mente quando ho preso in mano le redini del mondo, pensavo di affidarlo a questo Comitato Rivoluzionario Permanente di mosche da letame, tutte figlie mie? Rivoluzionari! Lapostolle dorme; Farinosa sogna Karakorum e se ne sta seduto a tormentarsi il nasone; la pancia di Ionigylakis brontola. Avrei dovuto mettere più mongoli nel Comitato; questi stranieri bianchi sono spenti. Ma ho bisogno dei miei mongoli altrove. Non posso permettere che diventino degli insetti ronzanti. Non posso lasciare che passino il tempo a russare. Sta nevicando di nuovo, oggi.
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