«Oh, tesoro! Ti ho già lavato i capelli.» Ma lo sguardo supplichevole, lo sguardo sto-cercando-di-non-piangere, la convince, e sorride e si arrende. «E va bene, ma solo per un po', Karen. Ma stai attenta, non farti andare le bollitine sui capelli. D'accordo?»
«D'accordo!» Karen osserva allegramente mentre Jeannette versa nell'acqua un sacchetto di polvere per il bagno di schiuma e apre il rubinetto dell'acqua calda. Jeannette resta lì vicino, in parte per badare ai capelli, in parte perché le piace. «Be', allora» dice bruscamente Karen «non abbiamo bisogno dei papà.»
«Cosa vuoi dire? E chi andrebbe in ufficio e porterebbe a casa le caramelle e i tosaerba e tutto il resto?»
«Non per questo. Volevo dire per i bambini. I papà non sanno fare i bambini.»
«Be', tesoro, loro aiutano.»
«Come, mammina?»
«Basta con le bolle. L'acqua sta diventando troppo calda.» Chiude il rubinetto.
«Come mammina?»
«Be' tesoro, è un po' difficile per te, forse, ma un papà ha un amore speciale. È molto bello e meraviglioso, e quando lui ama così una mamma, tanto tanto tanto, lei può avere un bambino.»
Mentre sta parlando, Karen ha trovato un pezzetto di sapone e tenta di vedere se riesce a infilarselo. Jeannette si abbassa sulla vasca da bagno e le tira fuori la mano e le fa cadere il sapone con un buffetto sulla mano.
«Karen, non toccarti là. Non è bello! »
«Comincia a capire?»
Charlie guardò pensieroso Philos, che l'aveva aspettato ai piedi dell'ascensore invisibile, con la sua solita aria di apparire come per caso, e con i soliti vigili occhi scuri scintillanti d'un divertimento segreto… o forse soltanto di consapevolezza… o forse di qualcosa di diverso, come una sofferenza. «Seace» disse Charlie «ha un modo dannatissimo di rispondere a tutte le domande che gli fai, e di lasciarti con l'impressione che ti nasconda qualcosa.»
Philos rise. Come Charlie aveva già notato, Philos aveva una bella risata. «Credo» disse il ledom «che tu sia pronto per la parte più importante. Il Centro dei Bambini.»
Charlie guardò verso il Centro Medico, poi alzò lo sguardo verso il Centro Scientifico. «Ci sono parecchie cose importanti, direi.»
«No» disse Philos, con sicurezza. «Quelli soni i parametri, per così dire, la cornice, l'impulso meccanico, ma nonostante tutto sono soltanto il contorno e un contorno molto sottile. Il Centro dei Bambini è la cosa più importante.»
Charlie tornò a guardare la massa sospesa sopra di lui e si meravigliò. «Deve essere molto lontano.»
«Perché dici questo?»
«Qualsiasi cosa più importante di questa…»
«…sarebbe visibile da qui? Certo, lo è.» Philos indicò… una casetta. Sorgeva in una piega tra le colline, circondata dal solito impeccabile tappeto verde, e sulle sue pareti basse e bianche crescevano fiammeggianti piante rampicanti, in fiore. Il tetto era appuntito, marrone con uno spruzzo di verde. C'erano cassette di fiori alle finestre, e a una estremità la parete bianca cedeva al fascino della pietra naturale e si affusolava in un camino da cui usciva fluttuando il fumo azzurro.
«Ti dispiace arrivare fin là a piedi?»
Charlie fiutò l'aria tiepida e splendente, e sentì la verde elasticità sotto i suoi piedi. «Se mi dispiace!»
Si avviarono verso la casetta lontana, scegliendo un cammino tortuoso tra le dolci ondulazioni del terreno. Ad un certo punto Charlie disse: «Tutto lì?».
«Vedrai» disse Philos. Sembrava teso per l'impazienza e la gioia.
«Hai mai avuto figli?»
«No» rispose Charlie, e pensò immediatamente a Laura.
«Se ne avessi» disse Philos, «li ameresti?»
«Oh, certo che li amerei!»
«Perché?» domandò Philos. Poi si interruppe, e con grande serietà prese il braccio di Charlie, si girò per guardarlo meglio, e disse lentamente: «Non rispondere a questa domanda. Mi basta che tu ci pensi sopra».
Sbalordito, Charlie non riuscì a pensare a una risposta; finalmente disse: «D'accordo». E Philos l'accettò. Proseguirono il cammino. L'impazienza sembrò aumentare; il ledom irradiava qualcosa… Charlie ricordava di aver visto un film, una volta, una specie di diario di viaggio. La macchina da presa era piazzata su un aereo che volava a bassa quota su una pianura, su case e campi, e la terra vicina correva via, e il commento musicale era carico della stessa impazienza. Il film non ti preavvertiva dell'assoluta enormità che stavi per vedere; per un tempo e una distanza che parevano eterni c'era solo quella campagna piatta e quella velocità, e una strada e una fattoria qua e là, ma la musica cresceva in tensione in suspence , fino a che, con una esplosione totale di colore e di prospettiva, ti trovavi scagliato oltre l'orlo del Gran Canyon del Colorado.
«Guarda là» disse Philos.
Charlie guardò e vide un giovane ledom che indossava una tunica di seta gialla, appoggiato a uno sperone roccioso, su un pendio scosceso e non molto lontano. Mentre si avvicinavano, Charlie si aspettava che avvenisse qualcosa, qualsiasi cosa, ma non ciò che accadde in realtà: quando qualcuno incontra un proprio simile, c'è una reazione, una interazione di qualche genere, che si tratti di un homo sapiens , di un ledom o di castoro; ma questa volta non vi fu alcuna reazione. Il ledom in giallo stava ritto su una gamba, con il dorso appoggiato alla roccia, un piede contro l'altro ginocchio, entrambe le mani serrate sotto la coscia alzata. Il viso, dai lineamenti piuttosto delicati, era sollevato, ma non era né rivolto verso di loro né distolto, e gli occhi erano semichiusi.
Charlie disse, a bassa voce: «Cosa…»
«Sh!» sibilò Philos. Passarono davanti a quella figura, senza affrettarsi. Philos le si avvicinò e, facendo cenno a Charlie di non far rumore, passò una mano davanti agli occhi semichiusi. Non vi fu alcuna reazione.
Philos e Charlie passarono oltre, e Charlie si voltò spesso a guardare. Finché poterono vedere la figura non vi fu alcun movimento, tranne l'agitarsi lieve dell'indumento serico nella brezza lieve. Quando, finalmente, una volta messo il dorso della collina tra loro e la creatura in trance , Charlie disse: «Mi pareva che tu avessi detto che i ledom non dormono».
«Quello non è sonno.»
«A me sembra qualcosa di molto simile. O forse è ammalato?»
«Oh, no… sono contento che tu l'abbia visto. Lo vedrai ancora, ogni tanto. È soltanto… fermo.»
«Ma che gli è successo?»
«Nulla, ti dico. È… ecco, una pausa. Non era rarissima nemmeno nel tuo tempo. I vostri indiani d'America, gli indiani delle pianure, potevano farlo. E anche certi nomadi delle montagne dell'Atlantide. Non è sonno. È qualche cosa che tu fai, senza dubbio, quando dormi. Hai mai studiato il sonno?»
«Non proprio quello che si potrebbe dire uno studio.»
«Io sì» disse Philos. «Una cosa molto interessante è che, quando dormi, tu sogni. In realtà, hai allucinazioni. Dormendo regolarmente come fai tu, ti procuri queste allucinazioni mentre dormi, sebbene il sonno sia in questo caso come in molti altri soltanto un particolare di comodo; persino tu potresti farlo senza dormire.»
«Be', c'è quello che noi chiamiamo fantasticheria…»
«Comunque lo chiami, è un fenomeno universale della mente umana, e forse dovrei limitarlo all'umanità. Comunque, resta il fatto che se alla mente è inibito, o proibito, di realizzare le allucinazioni, per esempio se un soggetto venisse svegliato ogni volta che scivola in quello stato, alla fine la sua mente crollerebbe.»
«La mente crolla?»
«È esatto.»
«Vuoi dire che se avessi svegliato quel ledom, sarebbe impazzito?» Brutalmente, chiese: «Avete tutti un equilibrio così delicato?».
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