Theodore Sturgeon - Venere più X

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Un mondo completamente diverso dal nostro; la civiltà dei ledom, enigmatiche creature ermafrodite, che hanno osato rivoluzionare sesso e religione per ottenere quello che l’homo sapiens non ha mai avuto. Charlie Johns, un uomo come tanti altri, uno di, noi, scaraventato d’improvviso in una situazione estranea, costretto ad osservare e giudicare questa civiltà alternativa. Da questi elementi Theodore Sturgeon, uno dei massimi autori americani di science-fiction, ha tratto una storia sublime e impegnativa; ha costruito un’opera che scava ’nelle nostre coscienze, indagando senza pietà sino al fondo della storia umana. Un romanzo che non è semplicemente un romanzo: una stupefacente lezione di libertà, un canto corale sul futuro del nostro pianeta. E i bambini diventano divinità, il tempo perde le dimensioni consuete, il cielo è una cupola d’energia. Attraverso una trama magicamente semplice, ricca di simbolismi e d’inventiva, Sturgeon tiene avvinto il lettore fino all’agghiacciante conclusione. Come ha scritto Frederik Pohl: “Forse questo non e il romanzo più strano di Sturgeon, ma e senz’altro il più bello.”
Nominate per il premio Hugo per il miglior romanzo in 1961.

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Theodore Sturgeon

Venere più X

«Charlie Johns» urlò incalzante Charlie Johns «Charlie Johns, Charlie Johns!» perché quello era assolutamente necessario… sapere chi era Charlie Johns, senza cedere mai neppure per un secondo, per nessuna ragione, mai.

«Charlie Johns sono io» disse in tono risentito, poi lo ripeté in tono lamentoso. Nessuno lo contraddisse, nessuno lo negò. Giaceva nella calda oscurità con le ginocchia rialzate e le braccia incrociate e la fronte premuta contro le rotule. Vedeva lampi d'un rosso cupo, ma li vedeva internamente alle palpebre, ed era Charlie Johns.

C.Johns, un tempo era stato stampigliato su un armadietto, era stato scritto in grassetto sul diploma di una scuola superiore, era stato battuto a macchina su un foglio-paga. Johns, Chas , era scritto sull'elenco telefonico.

Quel nome, d'accordo. D'accordo, andava benissimo, ma un uomo è più di un nome. Un uomo a ventisette anni si vede pettinato in un certo modo nello specchio al mattino e gli piace una goccia di salsa Tabasco sulle uova, che debbono avere il bianco ben cotto e il tuorlo fluido. È nato con un dito malformato e lo strabismo. Sa cuocere una bistecca guidare una macchina amare una ragazza manovrare un ciclostile andare in bagno spazzolarsi i denti compreso il ponte permanente, l'incisivo superiore laterale sinistro e il bicuspide. Esce da casa in anticipo ma arriva in ritardo al lavoro.

Aprì gli occhi e non c'erano affatto bagliori rossocupi, ma grigi… un freddo grigio argenteo, senza sorgente, simile alla traccia di una lumaca sulle foglie dei lillà, qualcosa di primaverile. Era primavera, oh, era primavera; la sera prima aveva fatto l'amore, Laura, lei…

Quando le sere sono lunghe, puoi fare tante cose. Quanto aveva supplicato Laura perché gli lasciasse portare di sopra il paravento; se Mamma avesse potuto vederlo! E giù, nella fetida cantina di Laura, strisciando i piedi nella semioscurità, con il paravento sotto il braccio, era andato a sbattere contro la punta di un cardine penzolante da uno scuretto scartato, si era fatto un buco nei calzoni di tweed marrone, si era procurato un livido rosso-sangue sulla coscia. E ne valeva la pena, oh, ne valeva la pena, in quella serata eterna, con una ragazza, una vera ragazza (lei sapeva dimostrare di esserlo) per tutta la lunga fine di quella serata; e l'amore, per tutta la strada del ritorno a casa, e naturalmente la primavera e naturalmente l'amore ! Dicevano le raganelle e i lillà e l'aria, e il modo in cui il sudore gli si asciugava addosso. (Bello, è bello. È bello essere una parte di questo luogo e di questo momento. È la primavera, naturalmente, e naturalmente è l'amore; ma la cosa migliore è ricordare, è sapere tutto questo, Charlie.)

E meglio ancora dell'amore è ricordare la casa, il sentiero tra le alte siepi, le due lampade bianche che avevano il numero 61 dipinto grande, in nero (era stata Mamma a farle, con le sue mani, per conto del padrone di casa; era molto brava nei lavori manuali), solo che ormai le lampade si erano molto sciupate, con l'andar del tempo, e si erano sciupate anche quelle mani. Il vestibolo con la fila di cassette per le lettere, di ottone macchiato, e i campanelli discreti degli inquilini, e la grata del citofono della casa, che non aveva mai funzionato da quando erano venuti a stabilirsi lì, e la massiccia piastra di ottone che nascondeva la serratura elettrica, che lui aveva aperto, per anni, con una spallata, senza neppure dover cambiare il passo… e doveva avvicinarsi, avvicinarsi perché? era così importante ricordare; nulla di ciò che ricordava era importante; è il ricordare in sé che importa; tu puoi! Tu puoi!

I gradini che salivano dal pianterreno avevano vecchi listelli nichelati sul tappeto logoro e sfilacciature rosse agli orli. (La signorina Mundorf insegnava in prima, la signorina Willard insegnava in seconda, la signorina Hooper insegnava in quinta. Ricorda tutto .) Si guardò intorno, nella luce argentea in cui giaceva, ricordando; le pareti morbide erano diverse dal metallo e diverse dal tessuto, eppure sembravano l'uno e l'altro, ed erano tanto calde… continuò a ricordare, ad occhi aperti: la rampa che portava dal primo piano al secondo aveva i listelli nichelati, ma non aveva il tappeto, e i gradini erano tutti incavati, oh, molto lievemente, quando vi salivi potevi essere assorto in qualunque pensiero, ma quel clak-clak che era un cambiamento rispetto al flap-flap del primo piano, ti riportava lì, e tu sapevi dov'eri…

Charlie Johns urlò: «Oh, Dio… dove sono?»

Si distese, rotolò sul ventre, sollevò le ginocchia, e per un momento non riuscì a muoversi. Aveva la bocca arida e scottante come le federe che si stiravano sotto il ferro di Mamma: i suoi muscoli, gambe e dorso, erano allentati e aggrovigliati, come il cestino del lavoro a maglia che Mamma avrebbe rimesso in ordine, un giorno o l'altro…

…l'amore con Laura, la primavera, le lampade con il numero 61, la spallata alla serratura, su per le scale flap-flap, clak-clak e… senza dubbio poteva ricostruire anche il resto del percorso, perché era andato a letto e si era alzato per andare a lavorare… o no? O no?

Si sforzò di sollevarsi, tremando, si inginocchiò, si accoccolò indebolito. La testa gli cadde in avanti e si fermò, ansimando. Guardò il tessuto marrone dei suoi abiti come se fosse una tenda che stesse per aprirsi davanti a un orrore ignobile ma inevitabile.

E così avvenne.

«L'abito marrone» sussurrò. Perché sulla coscia c'era il piccolo strappo, e sotto c'era il piccolo gonfiore dolorante della lividura, a dimostrare che quella mattina non si era vestito per andare al lavoro, non era neppure arrivato in cima alla seconda rampa di scale. Invece, era… lì.

Poiché non riusciva ancora ad alzarsi, si trascinò in giro su pugni e ginocchia, battendo le palpebre girando la testa malferma. Ad un certo punto si fermò e si toccò il mento. La barba non era più lunga di quanto deve esserlo per un uomo che torna a casa da un appuntamento per cui si è rasato con cura.

Tornò a voltarsi e vide un alto ovale splendidamente inscritto nella parete incurvata. Fu la prima caratteristica che riuscì a scoprire in quel luogo imbottito. Lo guardò, sbalordito, e quell'ovale gli diede in risposta il Nulla.

Si chiese che ora fosse. Alzò il braccio e girò la testa e si portò l'orologio all'orecchio. Funzionava ancora, grazie a Dio. Lo guardò. Lo guardò a lungo senza muoversi. Gli sembrava di non saper più leggere l'ora. Alla fine riuscì a capire che le cifre delle ore erano disposte a rovescio, specularmente: il due al posto del dieci, il quattro al posto dell'otto. Le lancette indicavano quello che avrebbe dovuto essere undici minuti alle undici, ma, se questo orologio andava davvero all'indietro, doveva essere l'una e undici. E funzionava a rovescio. Lo provava la lancetta dei secondi…

E sai, Charlie, gli disse qualcosa al di sotto del terrore e dello sbalordimento, sai che tutto quello che devi fare, anche adesso, è ricordare. C'è stata quella terribile battaglia con l'algebra, alla scuola superiore, in terza, perché eri scivolato sull'algebra in prima e avevi dovuto ripetere, e poi avevi fatto con tanta fatica il secondo anno di algebra e il primo di geometria, e poi eri scivolato sulla geometria e avevi dovuto ripetere… ricordi? E poi, nel terzo corso, per l'algebra avevi quella tale signorina Moran, che era una specie di IBM con i denti. E poi un giorno tu le hai chiesto qualcosa, a proposito di un certo non so che per cui eri perplesso e lei ti ha aperto la porta di cui non conoscevi l'esistenza e lei stessa è diventata qualcosa di importante per te… ebbene, dopo quella volta, quando tu la guardavi sapevi qual era la ragione dei suoi modi gelidi, della sua brusca disciplina, della sua inumanità. Lei aspettava proprio qualcuno che venisse a farle domande sulla matematica, un po' oltre, un po' fuori dal libro di testo. E lei aveva disperato per tanto tempo di trovare qualcuno che lo facesse. Era tanto importante per lei, perché lei amava la matematica in modo tale che era un peccato che la parola “amore” fosse stata usata per qualche altra cosa. E non sapeva se il ragazzo che le faceva una domanda sarebbe stato l'ultimo, l'ultimo cui apriva una porta, perché stava morendo di cancro, cosa che nessuno aveva mai sospettato prima del giorno in cui lei non venne più a scuola.

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