Theodore Sturgeon - Venere più X

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Venere più X: краткое содержание, описание и аннотация

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Un mondo completamente diverso dal nostro; la civiltà dei ledom, enigmatiche creature ermafrodite, che hanno osato rivoluzionare sesso e religione per ottenere quello che l’homo sapiens non ha mai avuto. Charlie Johns, un uomo come tanti altri, uno di, noi, scaraventato d’improvviso in una situazione estranea, costretto ad osservare e giudicare questa civiltà alternativa. Da questi elementi Theodore Sturgeon, uno dei massimi autori americani di science-fiction, ha tratto una storia sublime e impegnativa; ha costruito un’opera che scava ’nelle nostre coscienze, indagando senza pietà sino al fondo della storia umana. Un romanzo che non è semplicemente un romanzo: una stupefacente lezione di libertà, un canto corale sul futuro del nostro pianeta. E i bambini diventano divinità, il tempo perde le dimensioni consuete, il cielo è una cupola d’energia. Attraverso una trama magicamente semplice, ricca di simbolismi e d’inventiva, Sturgeon tiene avvinto il lettore fino all’agghiacciante conclusione. Come ha scritto Frederik Pohl: “Forse questo non e il romanzo più strano di Sturgeon, ma e senz’altro il più bello.”
Nominate per il premio Hugo per il miglior romanzo in 1961.

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«Credo che a Karen starebbe benissimo.»

«Ma Herb! Non ha niente, sopra!» grida lei, continuando a frugare.

Lui solleva i calzoncini e li guarda meditabondo. «E perché Karen ha bisogno di qualche cosa, sopra? Ha tre anni!»

«Ecco qua. Oh, guarda, è lo stesso che ha Dolly Graham.»

«C'è qualcuno, nel nostro vicinato, che possa eccitarsi se vede i capezzoli d'una bambina di tre anni?»

«Herb, non dire sciocchezze.»

«Non mi piace l'allusione.»

«Ecco!» Lei mostra quello che ha trovato, e ridacchia. «Oh, che carino, che carino !» Lo butta nel carrello, che va cigolando rapidamente verso la cassa, con le sei magliette, i quattro calzoncini cachi, due paia di sandali rossi con le suole di gomma biancogialla, un paio di mutandine da bagno blu cupo, misura cinque e un perfetto bikini in miniatura, misura tre.

I bambini, più di una decina, erano nello stagno e attorno allo stagno, cantavano mentre giocavano.

Charlie non aveva mai sentito un canto come quello. Aveva sentito molti canti peggiori e anche qualcuno migliore; ma non aveva mai sentito cantare così. Era qualcosa di simile al suono sommesso prodotto da una di quelle trottole che emettono un accordo d'organo, e poi, rallentando, scivolano su di un altro accordo collegato al primo. Qualche volta quei giocattoli son fatti in modo da emettere una sola nota costante, che suona come due o tre accordi, mentre vibra. Quei bambini (alcuni nell'adolescenza, altri marmocchietti) cantavano in quel modo; e la cosa più straordinaria era che, delle quindici o più voci che si impegnavano a turno, non erano mai più di quattro, eccezionalmente cinque, a cantare insieme.

L'accordo musicale vibrava sopra il gruppo, qualche volta si raccoglieva sopra un grappolo di piccoli corpi bruni, poi si spostava gradualmente attraverso lo stagno, fino all'altra riva, quindi si spandeva così che le note di contralto venivano da sinistra, quelle di soprano da destra. Si poteva quasi vedere l'accordo mentre si condensava, si rarefaceva, si librava, si diffondeva, balzava, cambiando le sfumature in sequenze vibranti, per poi tenere la nota-chiave, rafforzata di due voci all'unisono, mentre il sottofondo veniva modulato così da renderla dominante, una voce cadeva e poi, invece di ricadere, un'altra voce si appiattiva di mezzo tono e l'accordo, divenuto un po' più malinconico, scivolava armoniosamente. Infine una quinta, una sesta, una nona, dolcissima dissonanza che si risolveva come accordo tonale in un'altra chiave… e tutto era così facile, così spontaneo, così dolce e così delicato.

Quasi tutti i bambini erano nudi; avevano la figura eretta, gli occhi limpidi, i muscoli saldi. All'occhio ancora poco abituato di Charlie sembravano bambine. Pareva che non si concentrassero sulla loro musica; giocavano, sguazzavano, correvano, facevano costruzioni con il fango e i legnetti e i mattoni colorati; tre di loro giocavano a palla. Si parlavano nel loro linguaggio da colombe, si chiamavano, squittivano mentre correvano ed erano quasi raggiunti, strillavano, e uno piangeva come… ecco, come un bambino quando cade (e subito gli altri tre lo sollevarono, lo confortarono, lo baciarono, gli offrirono un giocattolo, lo costrinsero a ridere) ma soprattutto c'era quell'accordo mutevole a tre voci, a quattro voci, qualche volta a cinque voci, costruito dall'uno e dall'altro in una pausa, tra i respiri, a mezz'aria mentre si tuffavano nell'acqua, tra una domanda e una risposta.

Charlie aveva già udito qualcosa di simile, nel cortile centrale del Centro Medico, ma non era stato così vivace e così spontaneo; e avrebbe udito quella musica di accordi dovunque andasse, a Ledom, dovunque trovasse i ledom raccolti in gruppi numerosi; aleggiava attorno a Ledom come il vapore del loro calore corporeo aleggia attorno alle mandrie di renne nelle gelide pianure lapponi.

«Perché cantano così?»

«Fanno tutto insieme» disse Philos, con gli occhi che gli lucevano. «E quando sono insieme, e fanno cose diverse, cantano in questo modo. Riescono ad essere insieme, a sentirsi insieme, quando cantano così, e non importa ciò che stanno facendo d'altro. Lo sentono, come la luce del sole sulle loro spalle, senza pensarci, così… amandolo. Cambiano quel canto per il proprio piacere, per il modo in cui uno esce dall'acqua fresca sulle pietre tiepide. Lo tengono nell'aria, lo prendono dall aria attorno a loro e lo rendono. Ecco, lascia che ti mostri qualcosa.» Sottovoce, ma chiaramente, cantò rapidamente tre note: do, sol, mi…

E come se quelle tre note fossero palle colorate, lanciate a ciascuno di loro, tre bambini le raccolsero… un bambino per ogni nota, così che le note fluivano in un arpeggio e poi erano tenute come accordi; poi erano ripetute, di nuovo come arpeggi e poi come accordi; e poi un bambino (Charlie vide qual era; era immerso fino alla cintola nello stagno) cambiò una nota, così che l'arpeggio fu do, fa, mi… e subito dopo re, fa, mi e poi all'improvviso fa, do, la… e continuò così in progressione, modulando, invertendosi; aumentò, altre modulazioni vennero aggiunte, capricciosamente, elegantemente. Alla fine, l'arpeggio si perdette, e la musica s'adagiò in un accordo mutevole.

«È… è bellissimo» mormorò Charlie, augurandosi di poterlo dire con intensità pari alla bellezza di ciò che udiva, e disprezzandosi per la propria incapacità.

Philos disse, gioiosamente: «Ecco Grocid!»

Grocid, con una cappa scarlatta adorna di nastri avvolta attorno alla gola e svolazzante nell'aria, era appena uscito dalla casetta. Si volse e alzò lo sguardo, agitò una mano, cantò le tre note che Philos aveva cantato (e di nuovo quelle note furono colte, ricamate, rielaborate, passate tra i bambini) e rise.

Philos disse a Charlie: «Dice che ha saputo chi ero nell'istante in cui ha udito queste note». E chiamò: «Grocid! Possiamo venire?»

Grocid accennò loro di entrare, gaiamente, e loro scesero in fretta il ripido pendio. Grocid sollevò tra le braccia un bambino e venne loro incontro. Il bambino gli stava a cavalluccio sulle spalle, e gridava di gioia e giocava con gli ornamenti della cappa.

«Ah, Philos. Hai portato Charlie Johns. Venite, venite! Sono contento di vederti.»

Con grande sbalordimento di Charlie, Grocid e Philos si baciarono. Quando Grocid gli si avvicinò, Charlie tese rigidamente la mano: con immediata comprensione, Grocid la prese, la strinse e la lasciò.

«Questo è Anaw» disse Grocid, sfiorando con i capelli la guancia del bambino. Il piccino rise, nascose la faccia in quella massa folta, ne fece emergere un occhio sorridente, e sbirciò Charlie. Anche Charlie rise.

Entrarono insieme nella casa. Pareti dilatabili? Illuminazione nascosta? Vassoi antigravità? Viveri autocongelanti? Pavimenti automatici?

No.

La stanza era quasi rettangolare, quel tanto che bastava per soddisfare un paio d'occhi ormai affamati di linee rette, come d'un tratto si rese conto Charlie. Il soffitto era basso, sorretto da travi, e la stanza era fresca; non il bacio antisettico e privo di emozioni dell'aria condizionata, ma la freschezza delle finestre incorniciate di rampicanti, dei soffitti bassi e delle mura spesse; era la freschezza naturale degli strati sottocutanei della terra. E c'erano sedie… una di legno lucidato a mano, tre di disegno rustico, con curve di liana rigida e piani e spalliere di tronchi d'albero interi o tagliati.

Il pavimento era di pietra, livellato e pareggiato e tenuto insieme da un cemento purpureo, e coperto da vivaci tappeti tessuti a mano. Su un basso tavolino c'era una gigantesca ciotola di legno, ricavata da un solo pezzo di legno duro, e un servizio per bevande, grazioso ma molto rozzo; una caraffa e sette od otto bicchieri di terracotta. Nella ciotola c'era un'insalata di frutta, noci e verdure elegantemente disposte a forma di stella.

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