(Oh, maledizione, maledizione, maledizione! La vasca che ho svuotato, i rubinetti che non funzionano.)
Portò la brocca in bagno, provò ancora i rubinetti, poi si inginocchiò e travasò tutta l’acqua del water con le mani; riuscì a riempire la brocca.
I carboni avevano ripreso ad ardere quando tornò. Versò l’acqua, poi prese il piatto e li coprì con la sabbia. Aspettò un attimo e ne spazzò via un po’ con il piatto. Erano ancora caldi, e in grande quantità, per uno spessore di oltre mezzo braccio.
(Quanto tempo mi resta? O dei, non posso aspettare.)
Tirò via la sabbia. Con il rasoio, fece scivolare i carboni sul piatto rivoltandoli ed esaminandoli, e portandoli infine nel bagno. Raggiunse poi i carboni più profondi e più caldi. Trovò una grata metallica. La estrasse usando il casco come gancio. Smosse i carboni, e il piatto si spezzò in due per il calore. Usò allora il pezzo più grande, con più cautela. Le mani gli si erano riempite di vesciche. E ogni volta che avvicinava le mani al focolare era un dolore nuovo. Tutto ciò che stringeva scottava. Il pezzo di piatto si ruppe di nuovo, poi ancora e ancora, in pezzi sempre più piccoli. Smise di portare i carboni in bagno; li faceva adesso scivolare sulla sabbia, li esaminava e ne prendeva altri. Appoggiò un ginocchio su un carbone ardente; e le lacrime gli inondarono gli occhi, gli corsero sulla faccia, e si asciugarono.
Dal fondo, dei carboni raccolse un piccolo pezzo nero che era troppo regolare e liscio. Lo fece rotolare nella sabbia per raffreddarlo, e lo raschiò col rasoio. Era una pietra.
L’avvolse insieme alle altre, senza ritrarsi per il calore. (Devo smettere di cercare?)
Continuò, fino all’ultimo. A fianco del focolare, sotto alla vecchia cenere, trovò uno sportello metallico, e l’aprì col rasoio. Si bruciò di nuovo, tirando fuori dal fondo un’altra piccola pietra. Avvolse anche questa nel tessuto, e frugò fra la cenere rimasta; finché fu certo che non ce n’erano più.
Allora si sedette, appoggiando le braccia alle ginocchia e si riposò.
Poi prese la grata e i carboni e cominciò a rimetterli sul focolare.
La porta si aprì mentre era a metà del lavoro. Erano gli hatani che l’avevano accompagnato nella stanza. Si guardarono intorno.
Uno andò nel bagno, tornò, e Thorn si alzò.
— Vieni con noi — disse il primo. Thorn prese il kilt e se lo mise intorno alla vita, poi cominciò a raccogliere il resto della roba, sua e di Duun.
— Visitatore — aggiunse l’altro hatani — è chiaro dalla condizione della stanza che non te ne andrai. Non c’è bisogno di fare i bagagli.
— Per favore. — Thorn avvolse il mantello e gli abiti di ricambio di Duun nella sua tuta, che, insieme al mantello, era l’unica cosa non sporca. Raccolse il rasoio da terra e lo mise nel casco, insieme alle bottigliette di lozioni.
— Oh, non essere sciocco! — disse l’altro. — Rideranno di te nella sala. Incontrerai il maestro Tangan, con tutti gli hatani! Non puoi portarti dietro tutta quella roba!
— Non ho avuto occasione di dare a Duun il suo mantello. Non so, potrei anche perderle, queste cose. Mi dirà lui cosa fare.
— Allora vieni, sciocco. Ma ti avverto che rideranno. Dei… come sei sporco. Vuoi cambiarti d’abito. Posso prestartene uno.
— Grazie. Chiederò a Duun quando lo vedrò.
Gli altri indicarono la porta aperta.
Il corridoio sbucava in una sala aperta, circondata da una gradinata, e sui gradini sedevano totani avvolti nei mantelli grigi, a centinaia. Il pavimento era coperto di sabbia, con i segni curvilinei dei rastrelli. C’erano grandi massi e su ciascuno di questi sedeva un hatani.
In fondo alla gradinata, di fronte a lui, c’era Duun in piedi, l’unico senza mantello. Duun sollevò leggermente il mento, e Thorn scese i gradini, con la scorta alle spalle.
— Mi hai portato il mantello — disse Duun. — L’hanno toccato?
— No, Duun-hatani.
Duun allungò una mano, lo prese e lo indossò. Poi indicò la roccia più lontana. — L’ultimo è il maestro Tangan.
Thorn camminò sulla sabbia, lungo lo stretto sentiero che gli totani ora seduti sui massi avevano percorso; era a forma d’albero. Sentì altri camminare alle sue spalle. Si fermò di fronte all’ultimo masso tenendo ancora in mano tutte le sue cose.
— Puoi appoggiarle in terra — disse il maestro Tangan; sollevando la mano nella maniera che usava Duun, quando voleva dire che una cosa era sicura. — Resterai in piedi. — Duun si fermò vicino a lui. I due che l’avevano condotto si fermarono dall’altra parte. Thorn appoggiò il fagotto di fronte a sé.
— Sei sporco, giovane — disse Tangan. — È la maniera di presentarsi in questa sala?
— Perdonami, maestro Tangan.
— C’era qualcosa che non andava nella stanza?
Thorn esitò. Sembrava la domanda giusta. Tirò fuori dalla cintura il pezzo di stoffa. Lo svolse e mostrò le pietre. Le bruciature gli facevano male, e le mani macchiarono di sangue la tela. Thorn tremava malgrado tutti i suoi sforzi. (Erano tutte? Me ne è sfuggita una?)
— Ha bevuto l’acqua?
— La brocca era vuota — disse uno della scorta.
— Ha mangiato il cibo?
— Il cibo era sbriciolato — aggiunse l’altro.
— C’era una pietra nella brocca da cui è stata versata l’acqua. C’era una pietra nel piatto da cui il cibo è stato servito. Hai mangiato o bevuto?
— No, maestro Tangan. Ho versato l’acqua sul fuoco. Non ho mangiato. Non ho portato la mano alla bocca dopo aver toccato il cibo.
— Come posso sapere se è la verità?
Dapprima gli parve un’accusa. Poi gli venne in mente che era un’altra domanda. — Sei hatani, maestro Tangan. Se non fossi riuscito a scoprire un trucco come quello, potresti leggerlo dentro di me.
Un momento di silenzio, in tutta la sala. — Hai fatto il bagno?
— No, maestro Tangan.
— Questo sembra evidente.
Thorn era troppo stanco. Si limitò a guardare Tangan, tenendo in mano le pietre.
— Cosa ne hai fatto dell’acqua?
— L’ho versata, maestro Tangan, per le pietre.
— Ce n’erano?
— Non nella vasca.
— Posa le pietre che hai trovato sulla sabbia, una ad una.
Thorn si chinò e le fece scivolare dalla stoffa, una ad una. Alla terza, si sentì un movimento dalle gradinate, e ancora di più alla quarta. Thorn si raddrizzò e guardò il vecchio.
— Quattro è insolito — disse semplicemente Tangan. — Due, oltre il cibo e l’acqua, sarebbero state sufficienti a farti passare. Questa è la prima prova. La seconda sono io. Dimmi la cosa peggiore che tu abbia mai fatto.
Quasi Thorn lasciò che la sua faccia reagisse. E si fermò. Pensò un momento. (La perdita di Sheon? Ma quello non è stato fatto consapevolmente. Era per mia ignoranza. Questo darebbe la colpa a Duun.) — Ho gridato con la mia insegnante Sagot, maestro Tangan, ieri.
— Hai rubato?
— Solo da Duun.
Ci fu un altro movimento sulle gradinate.
— Hai mentito?
— Qualche volta.
— Hai ucciso qualcuno?
— No, maestro Tangan.
— Hai usato le tue capacità in modo sbagliato?
Thorn chiuse gli occhi. E li aprì. Era facile contare. — Tre volte, maestro Tangan. Quando ho gridato a Sagot, quando ho colpito un altro studente e quando l’ho minacciato.
— Sei molto veloce a rispondere. Non ce ne sono altre?
Thorn pensò ancora. — Ho litigato con Duun.
— Anch’io, visitatore. — Una risata sommessa si sparse nella sala. Al suo fianco, Duun abbassò la testa. La faccia del maestro non mutò espressione. — Abbiamo un caso nella Corporazione. Un membro reclama per sé un pugnale che anche un altro reclama. Come lo risolveresti?
Thorn si morse le labbra. Si sentì preso dal panico. (È una domanda sbagliata. Non c’è risposta. Devo osare dirlo?) Si accorse di tremare per il freddo. — Maestro Tangan, non ci sono hatani nella Corporazione che possano litigare per un possesso.
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