Roger Torraway era completamente prigioniero del fratello portatile, soggetto alla sua volontà, ingannato dalle sue interpretazioni: ed era terribilmente preoccupato.
Che cos’era accaduto? Perché aveva freddo, se in lui c’era così poco che poteva percepire una realtà sensoriale? Eppure desiderava che sorgesse il sole, sognava con nostalgia di crogiolarsi nella radiazione delle microonde trasmesse da Deimos. Faticosamente, Roger sentiva di ragionare in base alla realtà che gli si offriva. Sentiva freddo. Aveva bisogno di immissioni di energia: questa era l’interpretazione. Ma perché aveva bisogno di altra energia, se aveva ricaricato da poco le batterie? Accantonò quel quesito perché non poteva trovare una risposta, ma l’ipotesi gli sembrava credibile. Spiegava la lentezza del suo movimento: camminare era un modo di muoversi assai più lento della solita corsa a grandi balzi, ma in termini di rapporto tra i chilowattore e i chilometri era più conveniente. Forse l’ipotesi spiegava anche i difetti dei suoi sistemi percettivi. Se il fratello portatile avesse scoperto prima che vi era energia insufficiente per le esigenze prevedibili, sicuramente avrebbe razionato la preziosa scorta per quei bisogni essenziali. O per quelli che esso percepiva come essenziali: viaggiare; impedire che le parti organiche di Roger gelassero; procedere con le abituali procedure di manipolazione dei dati e di controllo. E di questo, purtroppo, Roger non era a conoscenza.
Almeno, rifletté, la missione primaria del computer portatile era proteggere se stesso, il che significava tenere in vita la parte organica di Roger Torraway. Il computer poteva rubare energia dalla parte che lo avrebbe mantenuto sano di mente: poteva privarlo delle comunicazioni, interferire con le sue percezioni. Ma Roger era sicuro che sarebbe ritornato vivo fino al modulo.
Magari pazzo.
Aveva già coperto più di metà del percorso, di questo era quasi sicuro. Ed era ancora sano di mente. Il solo modo per restarlo era evitare di preoccuparsi. Il modo per non preoccuparsi era pensare ad altre cose. Immaginò la presenza vivace di Sulie Carpenter, che sarebbe arrivata di lì a pochi giorni; chissà se parlava sul serio quando diceva di voler restare su Marte. Chissà se anche lui voleva restare. Ricordò le grandiose mangiate che aveva fatto un tempo, la pasta verde agli spinaci con la béchamelle a Sirmione, davanti alle acque luminose e trasparenti del lago di Garda; il bue alla Kobe a Nagoya; il bruciante chili di Matamoras. Pensò alla sua chitarra e decise di portarla fuori e di suonarla. C’era troppo vapore acqueo nell’atmosfera delle cupole, e a Roger non piaceva stare a bordo del modulo; e all’aperto, naturalmente, ì suoni dello strumento erano strani, perché gli giungevano solo attraverso le ossa. Comunque… Ripassò mentalmente i movimenti delle dita per gli accordi, modulando tra i diesis e le settime e le minori. Immaginò le proprie dita che modulavano il mi minore, il re, il do e il si settima dell’inizio di «Greensleeves», e canterellò mentalmente il motivo. A Sulie avrebbe fatto piacere cantare accompagnata dalla chitarra, pensò. E le fredde notti marziane sarebbero trascorse più rapidamente…
Si riscosse, vigile.
Quella notte marziana non trascorreva più tanto rapidamente.
Da un punto di vista soggettivo, sembrava che la sua andatura fosse rallentata, dalla corsa a un passo lungo e costante: ma egli sapeva che non era cambiata; la sua percezione del tempo era ritornata normale, forse ancora un po’ più lenta del normale: gli pareva di camminare con metodica lentezza.
Perché?
C’era qualcosa, più avanti. Almeno a un chilometro di distanza. E molto luminoso.
Roger non riusciva a distinguerlo.
Un drago ?
Sembrava avanzare verso di lui a grandi balzi, alitando una lingua di luce, come una fiamma.
Il suo corpo smise di camminare. Cadde in ginocchio e cominciò a strisciare, molto adagio, tenendosi basso.
Era pazzesco, si disse Roger. Su Marte non ci sono draghi. Che cosa sto facendo? Ma non riuscì a fermarsi. Il suo corpo avanzava strisciando, ginocchio destro e mano sinistra, mano destra e ginocchio sinistro, al riparo di una collinetta di sabbia. Meticolosamente e rapidamente cominciò a rimuovere il fine terriccio marziano, per inserirsi nella cavità, per tirarsi addosso un po’ di quel terriccio. Dentro alla sua testa barbugliavano voci esilissime, ma egli non poteva capire ciò che dicevano: erano troppo fievoli, troppo ingarbugliate.
Il drago rallentò e si fermò a poche decine di metri, con la lingua di fiamma immobile protesa verso le montagne. La vista di Roger si annebbiò e cambiò; la fiamma si era attenuata, e la mole della cosa spiccava in una luminescenza spettrale. Due esseri più piccoli si lasciarono cadere dal dorso del drago: erano brutti animali scimmieschi, che avanzavano pesantemente e trasudavano minacce ad ogni gesto.
Non c’erano draghi, su Marte, e neppure gorilla.
Roger fece appello a tutte le sue energie. — Don! — urlò. — Brad!
Non riuscì a farsi udire!
Sapeva che il fratello portatile continuava a negare energia alla trasmittente. Sapeva che le sue percezioni si erano ingannate, che il drago non era il drago e i gorilla non erano gorilla. Sapeva che se non fosse riuscito a sopraffare il fratello portatile sarebbe accaduto probabilmente qualcosa di terribile, perché sapeva che le sue dita si andavano chiudendo delicatamente, lentamente, intorno a un pezzo di limonite grosso come una palla da baseball.
E sapeva che mai, come in quel momento, era stato così vicino a perdere la ragione.
Roger compì uno sforzo immenso per riconquistare la lucidità.
Il drago non era un drago. Era la jeep marziana.
Gli scimmioni non erano scimmioni. Erano Brad e Don Kayman.
Non lo minacciavano. Avevano percorso tutta quella strada nella gelida notte marziana per ritrovarlo e aiutarlo.
Si ripeté quella verità, più e più volte, come una litania: ma qualunque cosa pensasse, non poté impedire ciò che fecero le sue braccia e il suo corpo. Le mani afferrarono il pezzo di roccia; il corpo si alzò; le braccia scagliarono la pietra, con precisione esatta, contro il faro della jeep.
La lunghissima lingua di fiamma immobile si spense.
La luce irradiata dal milione di stelle brillanti bastava ai sensi di Roger, ma sarebbe stata di ben scarso aiuto per Brad e Don Kayman. Roger poteva vederli (ancora gorilloidi, ancora minacciosi), mentre incespicavano incerti; e sentiva ciò che stava facendo il suo corpo.
Strisciava verso di loro.
— Don! — urlò. — Attento! — Ma la voce non uscì mai dal suo cranio.
E una pazzia, si disse. Devo fermarmi!
Non poteva fermarsi.
Io so che non sono nemici! Non voglio far loro del male…
E continuava ad avanzare.
Era quasi sicuro di poter udire le loro voci, ormai. Così vicine, le loro trasmittenti sarebbero sembrate assordanti in condizioni normali, senza l’intervento del regolatore automatico di volume. Sebbene egli fosse isolato, c’era qualche infiltrazione.
— … qui intorno, da qualche parte…
Sì! Riusciva addirittura a distinguere le parole; e la voce, ne era sicuro, era di Brad.
Gridò con tutta la forza di cui poteva disporre: — Brad! Sono io, Roger! Temo che cercherò di ucciderti!
Implacabile, il suo corpo continuò a strisciare. Lo avevano udito? Gridò ancora; e questa volta li vide fermarsi entrambi, come se ascoltassero un grido debolissimo e lontano.
Il filo sottile della voce di Don Kayman mormorò: — Questa volta sono sicuro di averlo sentito, Brad.
— Sì! — ululò Roger, cercando di approfittare di quel vantaggio. — Attenti! Il computer mi domina. Sto cercando di sopraffarlo, ma… Don! — Adesso era in grado di distinguerli, perché il prete teneva il braccio proteso, rigidamente, nella tuta pressurizzata. — Andatevene! Cercherò di uccidervi!
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