Frederik Pohl - Uomo più

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Questo nuovo romanzo di Frederik Pohl ci presenta il primo tentativo di colonizzazione del pianeta Marte: non il Marte sognato dalla fantascienza di cinquant’anni fa, ma il Marte che oggi conosciamo attraverso i risultati trasmessi dalle sonde spaziali.
Il protagonista della colonizzazione è Uomo Più: l’uomo più gli ausili che gli possono offrire i computer, e il protagonista del romanzo è il primo di questi uomini. Macchine sofisticate collegate al suo corpo hanno sostituito i suoi organi con altri organi artificiali, ed egli è ora adatto a vivere nell’atmosfera rarefatta di Marte, a trarre dal sole l’energia che gli occorre. Ma i suoi ex simili, le persone umane normali, non lo riconoscono più come uno di loro, e Marte, considerato come un’avventura e un episodio, si rivela il suo esilio e la sua casa.
Nominato per i premi Hugo, Campbell e Locus in 1977.

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— Sicuro. — Ma Roger esitò. Le scariche causate dalla tempesta erano abbastanza forti e in un primo momento non avrebbe saputo dire con certezza quale dei due compagni gli avesse parlato. Solo dopo qualche istante aveva identificato la voce di Brad. — Forse adesso tornerò indietro, — annunciò.

L’altra voce, ancora più distorta: — Se lo farai, Roger, renderai felice un vecchio prete. Vuoi che ti veniamo incontro?

— No, diavolo. Posso muovermi più in fretta di voi. Andate a dormire: ci vediamo fra quattro o cinque ore.

Roger chiacchierò ancora per qualche istante, poi sedette e si guardò intorno. Non era stanco. Aveva quasi dimenticato cosa si prova quando si è stanchi; la notte, di solito, dormiva un’ora o due, e di tanto in tanto dormicchiava durante il giorno, più per noia che per stanchezza. La sua parte organica imponeva ancora certe esigenze al suo metabolismo, ma la stanchezza schiacciante dello sforzo prolungato non apparteneva più alla sua esperienza. Si era seduto perché gli piaceva mettersi tranquillo su uno spuntone di roccia e guardare la valle che era casa sua. La lunga ombra delle montagne aveva già superato la cupola, e soltanto i picchi, da quella parte, erano ancora illuminati. Roger poteva vedere il limite della luce: l’atmosfera rarefatta di Marte non diffondeva molto l’ombra. Quasi riusciva a vederlo muoversi.

Il cielo, lassù, era bellissimo e splendente. Era abbastanza facile vedere le stelle più luminose anche durante il giorno, specialmente per Roger: ma di notte erano fantastiche. Riusciva a distinguere chiaramente i diversi colori: Sirio azzurra come l’acciaio, la sanguigna Aldebaran, l’oro affumicato della stella Polare. Espandendo lo spettro visibile nell’infrarosso e nell’ultravioletto, egli poteva vedere nuove fulgide stelle di cui non conosceva i nomi: e forse non avevano neppure nomi comuni, poiché eccettuato lui le avevano viste soltanto gli astronomi, servendosi di lastre speciali. Pensò alla questione dell’assegnazione dei nomi: se era l’unico che poteva vedere quella chiazza luminosa, là nella costellazione di Orione, aveva anche il diritto di battezzarla? Qualcuno avrebbe trovato da ridire se l’avesse chiamata «Stella di Sulie»?

Del resto, egli poteva vedere quello che, per il momento, era la stella di Sulie… o il corpo celeste di Sulie. Deimos non era una stella, naturalmente. Alzò lo sguardo verso la piccola luna, e si divertì a. immaginare il viso di Sulie…

— ROGER, TESORO…

Torraway balzò in piedi, e atterrò un metro più in là. L’urlo, dentro alla sua testa, era stato assordante. Era vero? Non poteva saperlo. Le voci di Brad e di Don Kayman e quella simulata di sua moglie risuonavano egualmente familiari, dentro di lui. Non sapeva neppure con certezza di chi fosse… di Dorrie? Ma lui aveva pensato a Sulie Carpenter, e la voce era così bizzarramente alterata che poteva essere di entrambe, o di nessuna delle due.

Poi non vi furono suoni, eccettuati i ticchettii, i cigolii e gli stridii che salivano dalle rocce, via via che la crosta marziana reagiva al rapido abbassamento della temperatura. Roger non sentiva il freddo come freddo: il suo impianto di riscaldamento interno manteneva a temperatura costante la sua parte sensibile, e avrebbe continuato a farlo senza difficoltà durante tutta la notte. Ma sapeva che adesso erano almeno cinquanta gradi sotto zero.

Un’altra esplosione: — ROG… CREDO CHE DOVRESTI…

Sebbene ora egli fosse sull’avviso, quel grido rauco fu doloroso. Stavolta scorse una rapida, fuggevole visione dell’immagine simulata di Dorrie, librata bizzarramente nel nulla, all’altezza di una dozzina di metri.

L’addestramento ebbe la meglio. Roger si girò verso la cupola lontana, o almeno dove credeva che fosse, spiegò le ali dietro di sé e disse chiaramente: — Don! Brad! C’è qualcosa che non funziona. Ricevo un segnale ma non riesco a leggerlo.

ROGER!

Era di nuovo Dorrie, dieci volte più grande del naturale: torreggiava sopra di lui, e sul suo volto c’era una smorfia di collera e di paura. Sembrò tendere le braccia verso di lui; poi si piegò stranamente da un lato, come un’immagine televisiva che guizza via dal tubo catodico, e sparì.

Roger provò una strana sofferenza, cercò di scacciarla pensando che fosse paura, la provò di nuovo e si accorse che era freddo. C’era qualcosa che non andava affatto. — Mayday! — gridò. — Don! Sono nei guai… aiutatemi! — Le lontane montagne scure parvero ondeggiare lentamente. Roger alzò gli occhi. Le stelle diventavano liquide e sgocciolavano dal cielo.

Nel sogno di Don Kayman, egli era seduto insieme a suor Clotilda su alcuni cuscini davanti a una cascata, e tutti e due mangiavano spugne. Non finte spugne di zucchero: spugne da cucina, intinte in una specie di fondue. Clotilda lo avvertiva del pericolo. — Ci scacceranno, — diceva, tagliando un quadratino di spugna e infilzandolo su una forchetta d’argento a due punte, — perché tu hai avuto un brutto voto nelle omelie… E intingeva il pezzetto di spugna nel tegamino a fondo di rame sul fornelletto ad alcool. — E devi assolutamente svegliarti…

Don Kayman si svegliò.

Brad era chino su di lui. — Andiamo, Don. Dobbiamo andare.

— Cosa succede? — Kayman si tirò sul petto il sacco a pelo, con la mano illesa.

— Non riesco a ottenere una risposta da Roger. Non risponde. Gli ho trasmesso un segnale d’emergenza. Poi mi è sembrato di sentirlo alla radio, ma molto debole. O è fuori dalla linea di visuale, oppure la sua trasmittente non funziona.

Kayman si trascinò fuori dal sacco a pelo e si mise a sedere. In quei momenti, appena si svegliava, il braccio gli faceva più male del solito: anche adesso. Cercò di non pensarci. — Hai la posizione?

— Solo quella di tre ore fa. In quest’ultima trasmissione non ci sono riuscito.

— Non può essere molto lontano. — Kayman stava già infilando le gambe nella tuta pressurizzata. Poi venne la parte più difficile: cercare di inserire delicatamente nella manica l’avambraccio fratturato. Insieme, i due uomini riuscirono ad allargare un po’ la manica, sigillando l’inizio d’una lacerazione. Ma riuscirono a malapena: non sarebbe stato facile neppure nelle condizioni migliori. Adesso, poiché cercavano di affrettarsi, era un’impresa esasperante.

Brad aveva già addosso la tuta e gettava in un sacco strumenti e utensili. — Prevedi di dover eseguire un’operazione di emergenza là fuori? — domandò Kayman.

Brad fece una smorfia e continuò il suo lavoro. — Non so cosa dovrò fare. È notte alta, Don, e Roger è almeno a una quota di cinquecento metri. Fa freddo.

Kayman si azzitti. Quando riuscì a chiudere la tuta, Brad aveva già lasciato il modulo da diversi minuti e aspettava al volante della jeep marziana. Kayman si issò a bordo faticosamente, e il veicolo si mosse prima che egli avesse la possibilità di agganciarsi la cintura di sicurezza. Riuscì a tenersi saldo con i tacchi e il braccio che non poteva piegare, mentre si allacciava con l’altra mano, ma faticò parecchio. — Hai idea di dove si trovi? — domandò.

— Tra le montagne, da qualche parte, — disse la voce di Brad al suo orecchio. Kayman rabbrividì e abbassò il volume della radio.

— Forse a due ore da qui, — disse, calcolando in fretta.

— Se si è già mosso per tornare indietro, può darsi. Se non si può muovere… o se si aggira da quelle parti, e dobbiamo cercare di rintracciarlo con il RDF… — La voce tacque. — Penso che non abbia difficoltà con la temperatura, — riprese Brad dopo un minuto. — Ma non so. Non so cosa sia successo.

Kayman guardava davanti a sé. Oltre il vivido campo luminoso del faro del veicolo, non si vedeva nulla: solo che la distesa lucente delle stelle era interrotta all’orizzonte, come l’orlo frastagliato di una sottocoppa. Là c’era la catena di montagne. Kayman sapeva che Brad la usava come riferimento: mirando sempre al punto più basso sotto il doppio picco al nord e quello altissimo un po’ più a sud. La fulgida Aldebaran in quel momento splendeva al di sopra della vetta più alta: sarebbe stata di per sé un buon punto di riferimento, almeno fino a quando fosse tramontata, di lì a un’ora circa.

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