— Sta bene. — A Brad interessavano di più le sue pianticelle, e Torraway non s’interessava più di Brad. Talvolta ricordava che quell’uomo era stato l’amante di sua moglie, ma per provare una sensazione al riguardo doveva ricordare a se stesso di aver avuto una moglie. Gli pareva che non ne valesse la pena. Erano molto più interessanti l’alta valle concava, al di là della più lontana catena di montagne, e il suo campicello personale. Ormai da settimane portava a Don Kayman esemplari di forme viventi marziane. Non erano abbondanti: magari due o tre insieme, e poi nient’altro per centinaia di metri tutto intorno. Ma non era difficile trovarli… non per lui. Non appena aveva imparato a riconoscere il loro speciale colore — le lunghezze d’onda ultraviolette, riflesse dalle calotte cristalline per permettere la sopravvivenza in quell’aspro ambiente di radiazioni — istintivamente filtrava la propria gamma visiva, per vedere soltanto il colore di quella lunghezza d’onda, e allora spiccavano anche a un chilometro di distanza.
Perciò ne aveva portati una dozzina, e poi un centinaio; sembrava che appartenessero a quattro varietà distinte, e non passò molto tempo prima che Kayman gli dicesse di smetterla. Il prete aveva tutti i campioni che gli occorrevano per studiarli, e un’altra mezza dozzina d’ogni varietà conservata in formalina, per portarli sulla Terra; e la sua anima mite provava rimorso al pensiero di alterare l’ecologia di Marte. Roger cominciò a trapiantare alcuni esemplari nei pressi della cupola. Diceva a se stesso che lo faceva per vedere se l’energia trasmessa dal generatore danneggiava in qualche modo le forme di vita indigene.
Ma in fondo al cuore sapeva bene che in realtà si dedicava al giardinaggio. Era il suo pianeta, e cercava di abbellirlo per se stesso.
Uscì dalla cupola, si stiracchiò beato per un momento nel duplice tepore del sole e delle microonde e controllò le batterie. Sarebbe stato meglio caricarle un po’: con destrezza, innestò i cavi nello zaino e nell’accumulatore ronzante alla base della cupola e, senza guardare in direzione del modulo, disse: — Sto per decollare, Don.
Subito la voce di Kayman rispose via radio. — Mettiti in contatto con noi almeno ogni due ore, Roger. Non voglio essere costretto a venirti a cercare.
— Tu ti preoccupi troppo, — disse Roger, staccando i cavi e riponendoli.
— Sei soltanto sovrumano, — borbottò Kayman. — Non sei Dio. Potresti cadere, romperti qualcosa…
— Non succederà niente. Brad? Arrivederci.
All’interno della triplice cupola, Brad alzò la testa dagli steli di grano che gli arrivavano alle ascelle e agitò le braccia in segno di saluto. Era impossibile scorgere il suo volto attraverso le pellicole delle cupole; la plastica era stata ideata in modo da escludere gran parte delle radiazioni ultraviolette, e confondeva un po’ anche alcune lunghezze d’onda della luce visibile. Ma Roger vide quel saluto. — Sii prudente. Chiamaci prima di sparire dalla linea della visuale, così sapremo quando dovremo cominciare a preoccuparci.
— Sì, mammina. Era strano, rifletté Roger. Si sentiva veramente affezionato a Brad. La situazione lo interessava come problema astratto. Forse perché era un castrato? Nel suo organismo circolava il testosterone: a questo provvedeva la capsula di steroidi che gli avevano innestato. I suoi sogni erano talvolta sessuali; talvolta sognava Dorrie; ma la disperazione e la rabbia che l’avevano assillato sulla Terra, su Marte si erano attenuate.
Era già a un chilometro dalla cupola, e correva in scioltezza nella luce tepida del sole: ad ogni passo posava il piede esattamente dove avrebbe trovato terreno solido, ogni spinta lo portava esattamente in alto e in avanti, come lui voleva. La vista era regolata sulla sorveglianza a bassa energia, e assorbiva tutto in una forma mobile a goccia: la punta era dov’egli si trovava, e il lobo, del diametro di cinquanta metri, era cento metri più avanti di lui. Roger non era ignaro del resto del paesaggio. Se fosse comparso qualcosa d’insolito, e soprattutto se si fosse mosso qualcosa, l’avrebbe visto immediatamente. Ma ciò non lo distraeva dalle sue riflessioni. Tentò di ricordare le sensazioni che gli aveva dato fare l’amore con Dorrie. Non era difficile rammentare i parametri fisici, oggettivi. Era molto più difficile sentire ciò che aveva provato a letto con lei. Era come cercare di rammentare la gioia sensuale di un cioccolatino quando lui aveva undici anni, o il suo primo «viaggio» con la marijuana quando ne aveva quindici. Era più facile provare qualcosa per Sulie Carpenter, sebbene, a quanto ricordava, non avesse mai toccato altro che le punte delle dita di lei, e soltanto per caso. (Naturalmente, Sulie aveva toccato tutte le parti di lui.) Di tanto in tanto, Roger aveva pensato all’imminente arrivo di Sulie su Marte. All’inizio gli era sembrata una minaccia. Poi era diventato interessante, un cambiamento da attendere con ansia. Adesso… Adesso, pensò Roger, voleva che avvenisse presto, non tra quattro giorni, quando lei sarebbe atterrata, dopo che il suo pilota avesse completato i collaudi in situ con il 3070 e il generatore MHD. Presto. Si erano scambiati qualche parola via radio. Ma la voleva più vicina. Voleva toccarla…
L’immagine di sua moglie si formò davanti a lui: portava lo stesso monotono prendisole. — È meglio che ti metta in contatto radio, tesoro, — disse lei.
Roger si fermò e si guardò intorno, regolando la vista sullo spettro normale terrestre.
Aveva percorso quasi metà della distanza tra la cupola e le montagne: una decina abbondante di chilometri. Il percorso era in salita, e il terreno, di pianeggiante che era, si era fatto ondulato: Roger riusciva appena a scorgere la parte superiore della cupola, e la punta delle antenne del modulo era una minuscola spiga, più oltre. Senza l’intervento della volontà, le ali si spiegarono dietro di lui per rendere più direzionale il suo segnale radio, così come un uomo si farebbe portavoce con le mani intorno alla bocca. — Tutto bene, — disse, e la voce di Don Kayman gli rispose, dentro la sua testa: — Magnifico, Roger. Fra tre ore sarà buio.
— Lo so. — E quando scendeva l’oscurità, la temperatura precipitava: tra sei ore avrebbe potuto raggiungere i centocinquanta gradi sotto zero. Ma Roger era rimasto fuori al buio altre volte, e tutti i suoi sistemi avevano funzionato splendidamente. — Ti richiamerò ancora quando sarò abbastanza in alto su un pendio per mettermi in contatto, — promise. Si voltò e riprese a dirigersi verso le montagne. L’atmosfera era più caliginosa. Roger controllò i suoi ricettori epidermici e si rese conto che s’era levato il vento, e si andava rinforzando. Una tempesta di sabbia? Era sopravvissuto anche a quelle; se fosse diventata minacciosa, si sarebbe raggomitolato come un riccio da qualche parte, in attesa che cessasse. Ma doveva essere una tempesta davvero terribile, perché questo si rendesse necessario. Sogghignò tra sé — non aveva imparato bene a farlo con la sua nuova faccia — e procedette a grandi balzi…
Al tramonto era all’ombra delle montagne, e già abbastanza in alto per vedere chiaramente la cupola, a più di venti chilometri.
La tempesta di sabbia infuriava sotto di lui, ormai, e sembrava si allontanasse. Roger si era fermato due volte per qualche istante e aveva atteso, con le ali ripiegate. Ma era stata soltanto una precauzione; la tempesta non gli aveva mai dato molto fastidio. Spiegò le ali dietro di sé e disse, via radio: — Don Brad? Qui è il vostro vagabondo a rapporto.
La risposta dentro alla sua testa, quando arrivò, era gracchiante e distorta, una sensazione spiacevole, come strofinarsi sui denti un pezzo di carta vetrata. — Il tuo segnale è pessimo, Rog. Va tutto bene?
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