Quando ebbe terminato il colloquio con Kothu, Azarin chiamò Novoya Moskva, deciso e soddisfatto. Il suo volto aveva un'espressione impenetrabile, le labbra erano strette, gli occhi socchiusi. Poi il volto cominciò ad arrossarsi, a perdere l'abituale freddezza. Il sorriso che apparve sulle sue labbra fu molto diverso da quello che era abituato a mostrare agli altri, e a quello che era rimasto nei boschi, con la sua giovinezza passata. Un sorriso che lui stesso sapeva di possedere, il ricordo di un tempo remoto, oscurato dalla luce di decreti stranieri e di soli lontani.
Gli occorsero alcuni minuti per convincere la Direzione Centrale, ma Azarin non si spazientì. Presentò il suo piano, agendo con la forza e la potenza del boscaiolo che abbatte un tronco robusto con brevi è rapidi colpi di scure, sicuro che l'albero, prima o poi, cadrà.
Finalmente riappese il ricevitore, e trangugiò il bicchiere di té in pochi sorsi. L'attendente corse a riempirlo nuovamente. Gli occhi di Azarin lampeggiarono, e le labbra si curvarono in un sorriso di trionfo, perché l'uomo sapeva che ancora una volta era stato lui, Anastas Azarin, a trovare la soluzione sfuggita ai burocrati della Direzione Centrale.
Appoggiò le mani alla scrivania e si issò in piedi. Varcò una porta, e si trovò in un altro ufficio.
«Sto per scendere. Fa' preparare l'automobile» disse al suo aiutante.
Sarebbero stati necessari diversi giorni, prima che gli ordini per Heywood avessero raggiunto Washington. Ma questa parte del sistema, per lo meno, era assolutamente sicura. Inoltre, non c'era alcuna ragione per cui dovessero aspettare il suo arrivo per cominciare. Il piano di copertura era iniziato automaticamente da quel momento. Gli Alleati avrebbero trovato Novoya Moskva molto diversa, nelle trattative, ora che Azarin aveva raddrizzato le spine dorsali di molti membri della Direzione Centrale. E, di conseguenza, il telefono di Azarin sarebbe stato molto più silenzioso, e molto meno perentorio.
Bene. Tutto sistemato. Dal semplice contadino senza istruzione, Anastas Azarin. Dallo stupido che muoveva le labbra mentre leggeva. Dall'ignorante venuto dai boschi, che lavorava mentre Novoya Moskva parlava.
Gli occhi di Azarin scintillavano, quando egli entrò nella stanza di Martino, si fermò, e fissò l'uomo.
«Parleremo ancora» disse «adesso abbiamo tempo a volontà per scoprire la verità sul K-88.»
Era la prima volta che Azarin pronunciava apertamente quel nome. Vide che il corpo dell'uomo si contraeva.
La prima cosa che si perdeva in quelle condizioni, scoprì Martino, era il senso del tempo. Non ne fu particolarmente sorpreso, dato che un'esperienza completamente sconosciuta non poteva contenere gli elementi consueti, dei quali l'uomo si serviva per misurare il tempo. La stanza non aveva finestre, né orologi, né calendari. Queste, tra le cose mancanti, erano le più semplici e le più scontate. Poi, non c'era alcun cambiamento, nel suo ritmo di vita. Non c'erano pause per mangiare o dormire, e quando la fame e il sonno sono costanti, non forniscono alcun aiuto. La stessa stanza, che si doveva trovare nella direzione settoriale di Azarin, era costruita in modo tale da non offrire indizi. Era rettangolare, di cemento uniforme dal pavimento al soffitto. Martino camminava da un capo all'altro di essa, e la parete verso la quale camminava era quasi identica a quella che si trovava alle sue spalle, nei sia pur minimi particolari. Mentre camminava, passava in mezzo a due scrivanie di quercia, identiche, una di fronte all'altra, e dietro a ciascuna scrivania sedeva un individuo vestito di un'uniforme grigioverde. Anche gli uomini si somigliavano, e alle loro spalle si aprivano due porte uguali. C'era una lampada, esattamente nel centro del soffitto. Martino non aveva la minima idea a proposito della porta dalla quale era entrato, né della parete verso la quale si era diretto all'inizio.
Quando passava in mezzo alle scrivanie era invariabilmente l'uomo che si trovava alla sua destra a formulare la prima domanda. Poteva trattarsi di tutto: “Qual è il vostro secondo nome?” oppure “Di quanti pollici è composto un piede?”. Le domande erano insignificanti, e le sue risposte non erano registrate. Gli uomini dietro alle scrivanie, che cambiavano a intervalli apparentemente irregolari, ma che sembravano sempre, chissà per quale motivo, terribilmente simili, non si curavano neppure del fatto che lui rispondesse o meno. Se ricordava bene, all'inizio, per un po', non aveva neppure risposto. Dopo, rabbiosamente aveva cominciato a rispondere degli spropositi: “Newton”, oppure “otto”. Ma ora era molto meno faticoso rispondere la verità.
Sapeva quello che gli stava accadendo. A lungo andare, il cervello si sarebbe creato un vero e proprio siero della verità, per reagire ai veleni della stanchezza che lo raggiungevano. L'equazione era: “Risposte esatte = sollievo”. Non c'era nessuno sfogo, neppure quello del dolore fisico, che avrebbe potuto rivelarsi utile. C'era solo quel continuo camminare attraverso un mondo privo di significato.
Era questo che gli dava più fastidio. Gli uomini dietro alle scrivanie non lo degnavano di alcuna attenzione, a meno che non tentasse di fermarsi. Altrimenti, si limitavano a porre le loro domande, guardandosi tra loro, senza degnarlo di uno sguardo. Sospettò che i due non sapessero né chi lui fosse né per quale motivo si trovasse laggiù. In seguito, ne fu certo. Stavano giocando tra di loro, e non si occupavano di lui. Si servivano di lui perché ogni gioco che si svolgeva tra due persone aveva bisogno di una palla. Per loro non significava nulla il fatto che lui fornisse risposte esatte, perché non si trovavano in quella stanza per giudicare le sue risposte.
Sapeva che si trovavano in quella stanza solo per indebolire le sue difese, e che alla fine sarebbe arrivato Azarin, a occuparsi della parte conclusiva dell'interrogatorio. Ma nel frattempo provava un senso di terribile ingiustizia, che aumentava sempre più. Mentre camminava, gli venne voglia di piangere.
E capì anche di che cosa si trattava. Il suo cervello, dopotutto, aveva risolto il problema. Stava applicando l'equazione… stava facendo quanto gli altri desideravano che facesse. Stava dando le risposte esatte, e per semplice logica, gli altri avrebbero dovuto dargli un po' di sollievo. Ma gli altri lo ignoravano; non mostravano alcun segno di comprensione per il fatto che lui stava facendo ciò che essi volevano. E se lui stava facendo ciò che loro volevano, e loro lo ignoravano, il cervello poteva decidere soltanto che, chissà per quale motivo, non riusciva a trasmettere i suoi segnali per mezzo delle azioni ai due uomini. Se ce ne fosse stato soltanto uno, il cervello avrebbe potuto decidere che si trattava di un individuo cieco e sordo, che recitava le sue domande meccanicamente. Ma erano in due, sempre, e fra tutti dovevano essere almeno una dozzina. E così il cervello poté decidere soltanto che era lui, incapace di farsi sentire… che era Lucas Martino a non essere nulla.
Nello stesso tempo, egli comprese ciò che gli stava accadendo.
Azarin sedeva pazientemente dietro la sua scrivania, in attesa di una comunicazione dalla stanza degli interrogatori. Erano passati tre giorni, ormai, dal momento in cui Martino vi era stato condotto, dall'ospedale, e Azarin sapeva, essendo pratico del suo lavoro, che avrebbe ricevuto una comunicazione in giornata.
Era una cosa molto semplice, pensò Azarin. Si prendeva un uomo e gli si toglievano cose vitali… più vitali della pelle, sebbene gli fosse capitato di vedere l'applicazione della tortura fisica, da parte di individui più rozzi e meno abili. In effetti, il risultato era più o meno il medesimo, ma il complesso della cosa era più pulito. Un uomo porta pochissimo bagaglio eccedente nella mente. Perfino un burocrate, e Martino non era un burocrate. Più l'uomo è intelligente, meno consistente è il bagaglio eccedente, e più rapidi sono i risultati. Perché, quando si riesce ad esporre alla luce il cervello di un uomo, lo si trova tenero e fragile… qualche tocco, ed ecco ottenuto il risultato.
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