Azarin stava un po' giocando d'azzardo. La Direzione Centrale avrebbe potuto decidere di intervenire direttamente da un momento all'altro, con qualsiasi motivo. Ma lui pensava che avrebbero aspettato ancora. Erano stati loro a esaminare accuratamente Kothu e i suoi collaboratori, perché si trattava di interni di un ospedale militare. Avrebbero esitato, prima di smentire loro stessi. E sapevano che Azarin era uno dei loro uomini migliori. Alla Direzione Centrale non ridevano di lui. Sapevano quanto valeva.
No, poteva rischiare un piccolo giuoco d'azzardo con i suoi superiori. Era una cosa utile, tra l'altro, visto che un giorno lui si sarebbe trovato tra di loro, e avrebbe giuocato al loro stesso giuoco.
«Sì, signore. Altre due settimane.» Mordicchiò il filtro della sigaretta, che si ruppe. Continuò a mordicchiarlo piano, aspirando ugualmente il fumo. «Sì, signore. Mi rendo conto del fatto che il ritardo è già notevole. Ricorderò l'attuale situazione internazionale.»
Bene. Lo avrebbero lasciato continuare. Per un istante, Azarin si sentì felice.
Poi una parte della sua mente gli ricordò che non aveva ancora la minima idea sul come iniziare l'interrogatorio… che non era ancora stato fatto assolutamente nulla.
Azarin aggrottò la fronte. Preoccupato, disse: «Arrivederci, signore» posò il ricevitore, e appoggiò i gomiti sulla scrivania, tenendo la sigaretta in mano.
Sapeva di svolgere il suo lavoro in modo eccellente. Ma non si era mai trovato in condizioni simili, prima di ora. Neppure Novoya Moskva, e questo era d'aiuto, ma non serviva a risolvere il problema immediato.
Quelle detenzioni temporanee erano abitualmente di brevissima durata. L'uomo veniva diplomaticamnte privato di tutte le nozioni utili, nel tempo più breve possibile. Di solito, si impiegava molto poco. A volte il periodo veniva prolungato, ma l'uomo era sempre restituito agli Alleati il più presto possibile. Tranne che nei casi in cui si volevano provocare gli Alleati per qualche motivo più importante, era sempre meglio cercare di non esasperarli. Gli Alleati, esasperati, avrebbero potuto rinunciare alla loro abituale prudenza diplomatica, e le loro contromosse sarebbero state imprevedibili e magari catastrofiche. Inoltre, esistevano certi metodi che era meglio non usare sui prigionieri Alleati. Restituire un uomo in cattive condizioni, provocava uno stato di tensione intollerabile per mesi e mesi.
E così, di solito, al massimo dopo due giorni, un prigioniero veniva restituito agli Alleati. Allora, Rogers avrebbe impiegato un giorno o due per scoprire quanto aveva scoperto Azarin. E così tutto finiva. Se, qualche volta, Azarin scopriva qualcosa di utile, Rogers riusciva immediatamente a neutralizzarlo. Secondo Azarin, l'intera faccenda era uno spreco di tempo e di energia.
Ma adesso, con quel Martino, cosa aveva in mano? Aveva in mano un uomo che aveva inventato una cosa chiamata K-88, e che aveva un'altissima reputazione, sulla quale però mancava qualsiasi dato. Ancora una volta, Azarin imprecò contro i tempi nei quali viveva. Ancora una volta si rese rabbiosamente conto del fatto che spettava al professionista… ad Anastas Azarin… di sbrogliare la matassa il cui capo veniva offerto dai dilettanti come Heywood.
Azarin abbassò lo sguardo sulla scrivania, in preda all'ira. E, naturalmente, Novoya Moskva rifiutava di agire come se la faccenda fosse fondamentalmente un suo errore d'impostazione. Si limitavano a fare pressioni su Azarin, per ottenere dei risultati. Dopotutto, lui non era un ufficiale del servizio segreto? Cosa c'era di tanto difficile? Come mai erano già passate cinque settimane?
Era sempre così, quando si parlava ai burocrati. Dopotutto, loro avevano dei regolamenti. E i regolamenti avevano insegnato loro come agire. E così agivano come nel 1914 e nel 1941, quando i regolamenti erano stati scritti.
Nessuno sapeva nulla di quell'uomo, soltanto il corso inferiore all'Università della Tecnica del Massachusetts, a Cambridge. Imprecando, Azarin desiderò che i membri del servizio segreto sovietico fossero stati uguali alle immagini che di loro forniva il cinema… diabolici e inafferrabili, superuomini capaci di passare attraverso i muri e decifrare facilmente migliaia é migliaia di segreti Alleati. Gli sarebbe piaciuto avere un paio di individui simili, ai suoi ordini, perché ogni loro informazione sarebbe stata esauriente e accurata, aggiornata e completa, interpretata in maniera corretta, e non avrebbe dovuto essere confermata da nessun altro agente, e, inoltre, sarebbe stata sconosciuta a Rogers. Certo, individui del genere esistevano, ma venivano immediatamente assorbiti dallo stato maggiore, perché erano pochi.
E così, Martino aveva vissuto nell'ombra, protetto dal servizio di sicurezza che esisteva in entrambi i settori. Azarin aveva progettato di aggiungere il K-88 alla massa d'informazioni forzosamente incomplete e inutili che già aveva ottenuto. Ma non aveva immaginato una cosa del genere.
Adesso, aveva l'uomo. Lo aveva già da cinque inutili settimane. Lo aveva nelle sue mani, ferito in maniera quasi mortale, costretto in un letto, pronto a causare una storica cause célèbre se non fosse stato prontamente restituito agli Alleati… un uomo che sembrava di un grandissimo valore, anche se avrebbe potuto scoprire il contrario… un uomo che, di conseguenza, doveva essere restituito il più presto possibile e trattenuto il più a lungo possibile, e con il quale, soprattutto, era impossibile agire immediatamente, in un modo o nell'altro.
Era una situazione che, sotto alcuni aspetti, aveva del comico.
Azarin aspirò l'ultima boccata di fumo e spense la sigaretta nel portacenere. La situazione non era disperata. Aveva già abbozzato rozzamente un piano, e agiva di conseguenza. Avrebbe ottenuto dei risultati.
Ma Azarin sapeva che Rogers era di una intelligenza quasi inumana. Sapeva che Rogers si rendeva perfettamente conto della situazione di Azarin. E ad Azarin non piaceva l'idea secondo la quale in quel momento Rogers avrebbe potuto ridete di lui.
Un'infermiera si affacciò nella camera di Martino. Lentamente, egli abbassò la mano. L'infermiera scomparve, e dopo un istante un uomo in camice bianco entrò dalla porta.
Era un ometto magro e olivastro, dai denti larghi e dalla mascella pronunciata, che sorrise allegramente nel misurare le pulsazioni di Martino.
«Sono felice di vedervi già sveglio. Mi chiamo Kothu, sono un medico, come vi sentite?»
Martino mosse lentamente il capo da parte a parte.
«Capisco. Non c'era nient'altro da fare, purtroppo. Il cranio era quasi completamente sfracellato, gli organi sensori erano inutilizzabili. Fortunatamente, l'incidente ha provocato delle gravi ustioni epidermiche non esponendo però il cervello a un calore prolungato, e una successiva scossa d'urto ha sfondato il cranio, senza però ledere il cervello. Non è piacevole, certo, ma in un certo senso è andata bene. Il braccio, purtroppo, è stato sfracellato da una scheggia metallica. Prego, cercate di parlare.»
Martino lo fissò. Si vergognava ancora del grido che aveva fatto accorrere l'infermiera. Cercò di immaginare il suo aspetto… di visualizzare i meccanismi che, evidentemente, sostituivano gran parte dei suoi organi… e non riuscì a ricordare esattamente come aveva fatto a emettere il grido. Cercò di inspirare, per poi emettere qualche parola, ma sotto alle costole gli sembrò di sentire una sensazione assurda, come se una turbina stesse agendo al posto dei polmoni.
«Non è necessario alcuno sforzo» disse il dottor Kothu. «Parlate, ecco tutto.»
«Io…» Non avvertì alcuna diversità in gola. Aveva pensato di udire le parole tremare attraverso il vibratore di una laringe artificiale. Invece, si trattava della sua vecchia voce. Ma i polmoni non si muovevano, il diaframma non funzionava. Non esisteva alcuno sforzo, come nei sogni, e immaginò di poter parlare senza fine, per giorni, mesi, anni, all'infinito. «Io… Uno, due, tre, quattro. Uno, due, tre, quattro. Do, re, mi, fa, sol, la, si, do.»
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