Anastas Azarin non si era mai laureato nelle università. Non aveva mai usato i quaderni costosi, non si era mai servito dei perfetti blocchi per appunti. Mentre gli altri avevano posato il fondo dei calzoni delle loro divise sui banchi di scuola, lui si era trovato nei boschi con il padre, e aveva abbattuto i grandi alberi a colpi d'accetta. Mentre gli altri avevano superato gli esami, lui aveva lavorato. Mentre gli altri erano rimasti dietro alle loro scrivanie, lui era andato in Manciuria, aveva mangiato del riso pessimo insieme ai nativi. Mentre gli altri avevano riposato in casa, vicini alle loro mogli sognando una promozione, lui aveva sfidato la morte, malato di tifo in una piccola stazione di rifornimento.
E adesso aveva una scrivania tutta per lui, e un ufficio e un attendente dalle guance rosate e dai grandi occhi che gli portava il tè e batteva i talloni davanti a lui. Non erano loro a divertirsi… era lui. Era lui che poteva ridere… non loro. Loro non erano nulla, e lui era comandante di settore… Anastas Azarin, colonnello. Gospodin Polkovnik Azarin, piacesse o meno agli altri!
Si concentrò sui rapporti, brontolando. Nulla di nuovo. Come al solito, gli Alleati tenevano sotto stretto controllo il loro settore. C'era quello scienziato americano, Martino. Cosa stava facendo, nel suo laboratorio?
L'americano, Heywood, non era in grado di dirlo. Dalla sua posizione nel governo delle Nazioni Alleate, Heywood aveva potuto manovrare le cose in modo che il laboratorio di Martino si fosse trovato vicino al settore di Azarin. Ma non gli si poteva chiedere nulla di più. Aveva conosciuto Martino, sapeva che Martino era impegnato in un progetto importante, che richiedeva una sala alta venti piedi e dalla superficie di ottocento piedi quadrati, e che veniva denominato Progetto K-88.
Azarin corrugò la fronte. Era bellissimo e incoraggiante avere tanta fiducia nell'importanza di Martino, ma cos'era il K-88? A che serviva un nome? L'americano, Heywood, forniva con estrema esattezza i suoi dati, ma il fatto era che non c'erano dati da fornire. Il sistema di sicurezza interna del governo Alleato era così perfetto che nessuno, neppure Heywood, poteva sapere quello che accadeva nell'ambiente. Questo, di per se stesso, era normale… il sistema sovietico era lo stesso. Ma il fatto era che alla fine non sarebbe stato un agente segreto da romanzo, affascinante e pieno di microcamere nascoste, a svelare il mistero del K-88. Sarebbe stato Azarin… il povero Anastas Azarin, contadino… che avrebbe fatto a pezzi l'intera faccenda, come un orso fa a pezzi un vecchio albero per trovare il miele.
Martino avrebbe dovuto essere interrogato. Non c'era altro metodo possibile. Ma per quanto Novoya Moskva lo tempestasse di telefonate, non c'era un sistema rapido per farlo. Non si potevano infilare agenti nel laboratorio di Martino. Bisognava attenderlo. Gli uomini dovevano essere pronti in qualsiasi momento, pronti a rapirlo in qualche strada oscura che egli avesse percorso nelle vicinanze del confine, se questa circostanza fortunata si fosse mai verificata. Poi… un, due, tre, lo avrebbe avuto in mano sua, avrebbe potuto interrogarlo, e poi il loro uomo sarebbe stato rilasciato, tutto in pochi giorni, prima che gli Alleati avessero fatto in tempo ad agire, in un modo o nell'altro, e gli Alleati avrebbero perduto il progetto K-88. E quel demonio, l'americano Rogers, non importava quanto fosse intelligente, avrebbe finalmente imparato che Anastas Azarin era migliore di lui. Ma fino a quel momento tutti, Azarin, Novoya Moskva, tutti… avrebbero dovuto aspettare. Tutto al momento giusto, se il momento fosse mai giunto.
Il telefono sulla scrivania cominciò a squillare. Azarin sollevò il ricevitore.
«Polkovnik Azarin» abbaiò.
«Gospodin Polkovnik…» Era un membro del suo gruppo. Azarin riconobbe la voce, e cercò di ricordare il nome. Vi riuscì.
«Ebbene, Yung?»
«C'è stata un'esplosione nel laboratorio dello scienziato americano.»
«Manda degli uomini. Prendete l'americano.»
«Gli uomini sono già partiti. Che dobbiamo fare, poi?»
«Poi? Portatelo qui. No… un momento. Hai detto una esplosione? Portatelo all'ospedale militare.»
«Sì, signore. Spero davvero che sia vivo, perché questa, naturalmente, è l'opportunità che abbiamo aspettato.»
«Davvero? Va' a impartire gli ordini.»
Azarin posò il ricevitore. Un disastro. La cosa peggiore immaginabile. Se Martino era morto, o ferito così gravemente da risultare inservibile per settimane, Novoya Moskva sarebbe diventata intollerabile.
Non appena la sua automobile si fu arrestata davanti all'ospedale, Azarin saltò fuori e salì rapidamente le scale. Attraversò a passo di marcia la porta principale ed entrò nell'atrio, dove un medico lo stava aspettando.
«Colonnello Azarin?» domandò il piccolo e magro dottore, facendo un perfetto inchino. «Sono il dottor Kothu. Scusate… non parlo molto bene la vostra lingua.»
«Io me la cavo abbastanza bene con la vostra» disse giovialmente Azarin, immaginando la sorpresa e la gratitudine che si sarebbero dipinte sul volto dell'ometto. Quando esse giunsero, Azarin si sentì ancor meglio disposto nei riguardi del dottore. «Bene, allora… dov'è il nostro uomo?»
«Da questa parte, prego.» Kothu si inchinò nuovamente e lo condusse davanti a un ascensore. Un rapido sorriso sfiorò le labbra di Azarin, mentre si disponeva a seguirlo. Gli dava sempre piacere il fatto che il semplice Anastas Azarin dimostrasse di essere istruito come coloro che erano usciti dalle università. Era una cosa di cui essere orgoglioso, inoltre, sapere di avere imparato la lingua lottando contro la morte nella giungla, e non sui banchi di scuola o dalle labbra di un vecchio professore.
«Di quale entità sono le ferite dell'uomo?» domandò a Kothu, quando uscirono dall'ascensore per trovarsi in un altro atrio.
«Molto gravi. È morto, per alcuni istanti.»
Azarin si voltò di scatto.
Kothu annuì, mostrando a sua volta un certo orgoglio professionale.
«È morto nell'ambulanza. Fortunatamente, la morte non è più definitiva, in determinate circostanze.» Condusse Azarin davanti a una lunga finestra trasparente, che si apriva su una stanza dalle pareti bianche. All'interno, tra un groviglio di strumenti, giaceva un uomo, che indossava ancora i brandelli dei propri abiti, incredibilmente insanguinati.
«Ormai è salvo» spiegò Kothu «vedete, il cuore artificiale mantiene la circolazione sanguigna, e il rene artificiale funziona perfettamente. Da quella parte ci sono i polmoni artificiali.» Le macchine erano sistemate irregolarmente, dove erano state portate dalle loro posizioni originali, contro la parete. Dottori e infermiere si trovavano intorno a esse, e ne sorvegliavano attentamente il funzionamento, mentre altri dottori erano intorno all'uomo, intenti a fissare i capillari sanguigni e ad arrestare l'emorragia della spalla sinistra, dalla quale era stato amputato il braccio. Mentre Azarin guardava, altri infermieri sistemavano già le macchine nelle posizioni esatte. Lo stato di emergenza era passato. Le cose stavano assumendo un corso più regolare. Un'infermiera diede un'occhiata all'orologio, si avvicinò alla parete, e sostituì un'ampolla di sangue esaurita con una nuova.
Azarin aggrottò le sopracciglia per nascondere il suo nervosismo. Aveva provato una certa difficoltà nell'osservare l'orribile scena. Ogni uomo dopotutto, era stato creato con le interiora nascoste sotto la pelle, come si conveniva. Guardare quell'uomo, non era normale, ecco tutto. Gli altri non mostravano i loro organi intenti a svolgere il loro disgustoso lavoro, per tenere in vita il corpo. Vedere un uomo del genere, praticamente squartato, con uomini dalle conoscenze misteriose e… sì, spaventose… come Kothu, intenti a riparare gli organi schifosi nascosti dalla pelle levigata, bella e pulita…
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