Greg Bear - L'ultima fase

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L'ultima fase: краткое содержание, описание и аннотация

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Vergil Ulam, brillante ricercatore dei Genetron Labs, sta lavorando segretamente ad un esperimento che promette risultati sensazionali, e cioè la produzione di nuclei intelligenti di materia cellulare, capaci di evolversi e di apprendere con straordinaria rapidità. Ma quando Ulam infrange le norme di sicurezza del laboratorio e viene licenziato, si rifiuta di distruggere il frutto delle sue ricerche, come gli è stato ordinato, e decide invece di iniettarsi nel sangue le colonie cellulari, e diventare così egli stesso la cavia di un nuovo straordinario esperimento. Ma sarà il primo di un incredibile processo di mutazione e trasformazione, i cui limiti non sono facilmente immaginabili, perché infatti è subito chiaro che questa forma di intelligenza virale può assorbire e riplasmare qualsiasi materia vivente. Un’epidemia assolutamente inattaccabile, un vero e proprio universo di miliardi di cellule senzienti in frenetica espansione, che lentamente inghiottono l’America del Nord, trasformandola in uno scenario “alieno” che suscita al tempo stesso orrore e meraviglia. Ma si può parlare di catastrofe? O non è piuttosto un nuovo gradino nella scala dell’evoluzione? E che ne sarà dell’umanità, letteralmente trasfigurata da questi microscopici organismi che rappresentano una nuova dimensione di ciò che si può concepire come “vita”?
Nominato per il premio Nebula in 1985.
Nominato per i premi Hugo, Campbell e BSFA in 1976.

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— Salve.

Vergil sobbalzò e si volse, spalancando gli occhi.

— Scusami. Non volevo disturbarti.

Lui scosse la testa. La ragazza doveva essere sui ventotto anni: una bionda dalle sfumature dorate, così snella da sembrare sottile, e un volto non eccezionale ma attraente. Gli occhi castani, grandi e innocenti, erano la sua cosa migliore… salvo forse le gambe, si corresse, occhieggiandole d’istinto le caviglie.

— Non vieni qui molto spesso — disse lei. Gettò una rapida occhiata dietro di sé. — Oppure sì? Voglio dire, neppure io ci capito molto, del resto.

Lui si strinse nelle spalle. — Non spesso, già. Non è il caso. La mia percentuale di successi, qui dentro, non è spettacolosa.

La ragazza tornò a guardarlo e sorrise. — Su di te ne so più di quel che pensi — affermò. — Non ho bisogno di leggerti la mano. Sei un uomo abile, per prima cosa.

— Sul serio? — disse lui, sentendosi goffo.

— Abile con le mani, intendo. — Gli sfiorò il dorso di una mano che lui s’era poggiata su un ginocchio. — Hai dita sensibili. Puoi fare molte cose con mani come queste. Ma non hanno tracce di grasso, dunque non puoi essere un meccanico. E cerchi di vestirti bene, ma… — Ebbe una risatina cinguettante e la soffocò con le dita. — Scusa. Comunque ci provi.

Lui abbassò gli occhi sulla sua camicia di cotone, verde e nera, e sui pantaloni neri. Erano abiti nuovi e ben stirati. Cosa ci trovava di criticabile? Forse non le erano piaciute le scarpe bicolori; avevano fatto presto a sformarsi.

— Tu lavori… vediamo. — La ragazza si accarezzò una guancia con aria pensosa. Le sue unghie erano capolavori da manicure di classe, lunghi ovali dai riflessi bronzei. — Sei un cervello.

— Cosa?

— Lavori in uno dei laboratori che ci sono da queste parti. Hai i capelli troppo lunghi per essere uno della Marina, e del resto quelli non frequentano molto Weary’s. Non che io sappia. Lavori in un laboratorio e sei… no, tu non sei felice. Perché mai?

— Perché… — S’interruppe. Confessare che era disoccupato non era buona strategia. Per sei mesi avrebbe avuto diritto all’assegno governativo di disoccupazione; questo e i suoi risparmi avrebbero sopperito per un po’ di tempo alla mancanza di una paga fissa. — Come hai capito che lavoro in un laboratorio?

— Te lo rivelerò. La tasca della tua camicia… — Gliela toccò lievemente con le dita. — Il bordo è segnato dalla traccia della molla delle penne. Come se non facessi altro che levartele di tasca e rimetterle lì. — Sorrise, deliziosamente, e sporse la lingua in modo buffo come se lo avesse colto in fallo.

— Ma non mi dire.

— Sicuro. E porti il fermacravatta. Soltanto gli scienziati portano ancora il fermacravatta, al giorno d’oggi.

— Mi piace — si difese Vergil.

— Oh, anche a me. Il punto a cui voglio arrivare, però, è che non ho mai conosciuto uno scienziato. Voglio dire… intimamente.

Oh, Signore! pensò Vergil. — Che ti piacerebbe fare? — chiese, e immediatamente desiderò rimangiarsi quelle parole.

— Mi piacerebbe conoscerti, se non pensi che io stia andando troppo in fretta — disse lei, ignorando la domanda. — Guarda, il bar chiude fra pochi minuti. Non mi va di bere più niente e sono stanca di sentire musica. E tu?

Il suo nome era Candice Rhine. Ciò che faceva durante il giorno era accettare annunci per il La Jolla Light. Approvò la sua Volvo sportiva rossa e approvò il suo appartamento, un bicamera al terzo piano di un condominio a quattro isolati dalla spiaggia di La Jolla. Vergil l’aveva acquistato sei anni prima — appena uscito dalla scuola di medicina — da un antropologo che era partito per l’Ecuador subito dopo aver terminato uno studio sugli Indios del Sud America.

Candice entrò nell’appartamento come se ci avesse abitato per anni. Depose la blusa scamosciata sul divano e gettò la camicetta sul soprammobile in vetro e cromo al centro del tavolino. Con una risatina divertita sgusciò fuori dalla gonna e appese il reggiseno alla maniglia di una porta. Aveva seni piccoli, ma era così snella che su di lei sembravano voluminosi.

Vergil la guardava fra meravigliato e stupefatto.

— Vieni, scienziato — disse Candice, nuda sulla soglia della camera da letto. — Mi piace camminare sul pelo. — Vergil aveva messo la moquette sul pavimento, intorno al suo largo letto in stile California. Lei si mise in posa, con le mani sui fianchi, la schiena e un piede poggiati allo stipite della porta, poi ruotò sull’altro tallone e scomparve nel buio della stanza.

Vergil non si mosse finché lei non accese la lampada sul comodino da notte. — Lo sapevo! — la sentì esclamare. — Guarda tutti questi libri!

Più tardi, nel buio, Vergil pensò tardivamente ai pericoli del sesso in quel momento. Candice dormiva in silenzio al suo fianco, il sonno dovuto a diversi drink e a quattro riprese di sesso.

Quattro volte.

Non aveva mai fatto l’amore così intensamente. Prima d’addormentarsi lei aveva mormorato che i piloti lo facevano con regolarità, i medici con pazienza, ma soltanto gli scienziati con progressione geometrica.

Circa i pericoli… chiunque poteva vedere — e non solo nei libri di testo — i risultati della promiscuità in un mondo dove la gente viaggiava molto e aveva rapporti sessuali assai facili. Se Candice aveva molti rapporti sessuali (e Vergil era costretto a crederlo, visto che aveva preso l’iniziativa con assoluta disinvoltura) allora era impossibile dire quale specie di microrganismo stava ora accasandosi nel suo sangue.

Tuttavia dovette sorridere.

Quattro volte.

Candice mandò un mugolio nel sonno e lui sussultò, riaprendo gli occhi. Non avrebbe dormito bene, lo sapeva. Non era abituato ad avere qualcuno nel suo letto.

Quattro.

Nel buio i suoi denti, un po’ scuri, si scoprirono in un gran sorriso.

Il mattino dopo Candice si rivelò assai meno anticonformista. Insisté solennemente per occuparsi della colazione. Nel suo frigorifero ad angolo di vecchio modello Vergil aveva uova e fettine di carne, e lei cucinò con efficienza e precisione, quasi che avesse alle spalle un’esperienza di cuoca… o forse quello era semplicemente il modo in cui le donne facevano le cose? Lui non era mai riuscito a friggere un uovo in maniera decente. Gli venivano sempre o troppo crude o troppo cotte.

Seduta dall’altra parte del tavolo lei lo scrutò coi suoi grandi occhi castani. Vergil era affamato e mangiava in fretta. Non le stava offrendo un’esibizione di belle maniere, pensò. E con ciò? Cosa si aspettava da lui quella ragazza… o lui da lei?

— Sai, di solito io non resto per la notte — disse Candice. — Non faccio che chiamare il tassi alle quattro di mattina, quando l’amico già se la dorme. Ma tu mi hai tenuta… occupata fino alle cinque, e poi non volevo andarmene. Mi hai proprio sfinita.

Lui annuì e con l’ultimo pezzetto di toast raccolse l’ultimo gustoso pezzetto di tuorlo semiliquido. Non gli importava particolarmente sapere con quanti uomini fosse andata a letto. Meno di quel che sembrava, però, l’avrebbe giurato.

Vergil aveva fatto solo tre conquiste in vita sua, e una sola abbastanza soddisfacente. La prima a diciassette anni — gli era parsa un incredibile colpo di fortuna — e la terza un anno addietro. La terza era stata quella che lo aveva più soddisfatto e più ferito. E lo aveva convinto ad accettare la solitudine come un inferno della mente ma sempre preferibile al dolore delle delusioni.

— Suona un po’ orribile, non è vero? — chiese lei. — Voglio dire, i tassi alle quattro e il resto. — Lo fissò un poco. — Mi hai fatto godere sei volte — dichiarò.

— Bene.

— Tu quanti anni hai?

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