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Greg Bear: L'ultima fase

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Greg Bear L'ultima fase

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Vergil Ulam, brillante ricercatore dei Genetron Labs, sta lavorando segretamente ad un esperimento che promette risultati sensazionali, e cioè la produzione di nuclei intelligenti di materia cellulare, capaci di evolversi e di apprendere con straordinaria rapidità. Ma quando Ulam infrange le norme di sicurezza del laboratorio e viene licenziato, si rifiuta di distruggere il frutto delle sue ricerche, come gli è stato ordinato, e decide invece di iniettarsi nel sangue le colonie cellulari, e diventare così egli stesso la cavia di un nuovo straordinario esperimento. Ma sarà il primo di un incredibile processo di mutazione e trasformazione, i cui limiti non sono facilmente immaginabili, perché infatti è subito chiaro che questa forma di intelligenza virale può assorbire e riplasmare qualsiasi materia vivente. Un’epidemia assolutamente inattaccabile, un vero e proprio universo di miliardi di cellule senzienti in frenetica espansione, che lentamente inghiottono l’America del Nord, trasformandola in uno scenario “alieno” che suscita al tempo stesso orrore e meraviglia. Ma si può parlare di catastrofe? O non è piuttosto un nuovo gradino nella scala dell’evoluzione? E che ne sarà dell’umanità, letteralmente trasfigurata da questi microscopici organismi che rappresentano una nuova dimensione di ciò che si può concepire come “vita”? Nominato per il premio Nebula in 1985. Nominato per i premi Hugo, Campbell e BSFA in 1976.

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La vera sorpresa l’aveva avuta quando aveva messo alla prova i microbi mutanti. A paragone dell’elettronica costruita dall’uomo, anche la capacità nel computerizzare di un DNA batterico era enorme. Tutto ciò che Vergil doveva fare era di approfittare di quel che era già lì… dandogli una spinta nella direzione giusta.

Più di una volta era stato colpito dalla strana sensazione che il suo lavoro fosse troppo facile, e che lui non era tanto un costruttore quanto un servo della Natura… questo dopo aver visto le molecole cadere al proprio posto spontaneamente, o dopo aver fallito in tal modo che subito vedeva con chiarezza sia l’errore sia il procedimento per correggerlo.

Il brivido più strano e arcano l’aveva provato nel comprendere che stava facendo di più che creare piccoli computer. Una volta dato inizio al procedimento e messe in attività le sequenze di geni che potevano formare e duplicare i segmenti voluti del loro DNA, le cellule cominciavano a funzionare come unità autonome. Cominciavano a «pensare» da sole e sviluppavano un «cervello» più complesso.

I suoi primi E. Coli mutageni avevano mostrato la capacità d’apprendimento di un verme planaria; era riuscito a far loro percorrere semplici labirinti a T, premiandoli con molecole di zucchero. Presto avevano fatto meglio delle planarie: quei batteri — procarioti inferiori — s’erano rilevati superiori agli eucarioti pluricellulari! Dopo pochi mesi sapevano percorrere labirinti molto più complicati e — in rapporto alla loro scala — paragonabili a quelli ideati per i topi.

Rimosse queste sequenze biologiche dagli E. Coli mutageni le aveva inserite in linfociti-B, cellule bianche prelevate dal suo stesso sangue. Aveva rimpiazzato molte serie di introni (sequenze autoreplicanti di ACTG che in apparenza non codificavano per le proteine, e che costituivano una sorprendente percentuale del DNA in ogni cellula eucariotica) con le speciali catene molecolari da lui sviluppate. Negli ultimi sei mesi, usando proteine artificiali e ormoni come metodo di comunicazione, Vergil aveva «addestrato» i linfociti a interagire assai di più l’un l’altro e col loro ambiente esterno: un labirinto di vetro in miniatura molto complesso. I risultati erano stati superiori alle sue aspettative.

I linfociti avevano imparato a percorrere il labirinto e a guadagnarsi il nutrimento-premio con incredibile rapidità.

Attese che i suoi campioni fossero alla temperatura in cui tornavano attivi, poi inserì il vetrino nel pickup del sistema video e accese il primo dei quattro schermi del microscopio allineati sul banco. Su di esso comparvero i linfociti di forma pressappoco circolare nello studio dei quali aveva investito due anni della sua vita.

Erano già indaffarati a trasferirsi l’un l’altro materiale genetico, tramite lunghi tubicini flessuosi simili a pseudopodi o a file di batteri. Nei linfociti erano rimaste alcune caratteristiche sviluppatesi negli E. Coli dei primi esperimenti, per un motivo che lui ancora non aveva chiarito. I linfociti maturi non si riproducevano affatto, ed erano impegnati in una vera e propria orgia di scambi genetici.

Ogni linfocita del campione che stava osservando aveva in potenza le capacità intellettuali di una scimmia Rhesus. Dall’apparente semplicità del loro agire questo certo non risultava ovvio, tuttavia sapevano dimostrarlo nel corso totale della loro vita.

Vergil aveva comunicato con loro a livello di addestramento chimico, li aveva visti crescere e andare nella direzione in cui aveva sperato. E ora la loro breve esistenza giungeva al termine… gli era stato ordinato di assassinarli. Questo sarebbe stato fin troppo facile: se avesse aggiunto detergente nei contenitori le loro membrane si sarebbero dissolte. Alcuni manager dalla vista corta e dall’eccessiva cautela, capaci soltanto di strisciare verso il denaro come planarie in un labirinto, s’erano eletti a loro carnefici.

Mentre guardava i linfociti occupati nelle loro faccende strinse i denti per la rabbia.

Erano belli. Erano i suoi figli, estratti dal suo stesso sangue, nutriti con cura, costruiti secondo logica; con le sue mani aveva iniettato materiale biologico in almeno un migliaio di essi. E ora li vedeva indaffarati a trasformare tutti i loro compagni, l’uno dopo l’altro, senza interruzione…

Come Washoe, la scimpanzé che insegnava ai suoi figli il linguaggio gestuale appreso dai suoi «genitori» umani, loro stavano passandosi la torcia dell’intelligenza allo stato potenziale. Come avrebbe potuto scoprire qualora fossero stati capaci di usare quel potenziale?

Pasteur.

— Pasteur — disse ad alta voce. — Jenner.

Con cura Vergil preparò una siringa. Corrugando le sopracciglia infilò l’ago attraverso il tappo di cotone della prima provetta, immergendolo nella soluzione. Tirò indietro lo stantuffo. Il fluido pastelloso risalì nel cilindro di vetro, cinque, dieci, quindici cc.

Per alcuni minuti tenne la siringa sollevata davanti agli occhi, conscio che stava contemplando un rischio. Fino ad oggi , disse mentalmente alle sue creature, avete avuto la vita facile. La vita di Riley. Adagiati nel vostro siero, carezzandovi l’un l’altro, assorbendo tutti gli ormoni di cui avevate bisogno. Nessuno vi ha imposto di lavorare per vivere. Niente duri test, niente traumi. Nessuna necessità di usare ciò che io vi ho dato.

E cos’era quello che lui stava meditando? Metterli al lavoro nel loro ambiente naturale? Iniettandoli nel proprio corpo li avrebbe portati in salvo fuori dalla Genetron, e in seguito avrebbe potuto ritrovare abbastanza di loro da riprendere gli esperimenti.

— Ehi, Vergil! — Ernesto Villar bussò alla porta e mise dentro la testa. — È arrivato il film sull’arteria del topo. Abbiamo una riunione nella stanza 233. — Tamburellò con le dita sul battente e gli sorrise con calore. — Sei invitato. In veste di critico cinematografico.

Vergil riabbassò la siringa, con lo sguardo fisso nel nulla.

— Vergil?

— Sì, certo, adesso vengo — rispose in tono vago.

— Per carità, non eccitarti tanto! — brontolò Villar, seccato. — Comunque la proiezione della Prima comincia fra poco. — Richiuse la porta. Vergil udì i suoi passi allontanarsi nel corridoio.

Un rischio, infatti. Inserì di nuovo l’ago nel tappo di cotone, eiettò il siero nella provetta e mise la siringa in una bacinella d’alcool. Assicurò la provetta nel supporto, poi ripose il tutto nel Kelvinator. Fino a quel momento sulla beuta e sul porta-provette non c’era alcuna etichetta, a parte il suo nome. Staccò il cartellino dal portaprovette e lo sostituì con «Campioni di proteine per biochip — scarti di laboratorio 21-32». Sulla beuta incollò un’etichetta plastica «Antigeni di topo — scarti di laboratorio 13-14». Nessuno avrebbe ficcato il naso in un anonimo e non analizzato gruppo di scarti di laboratorio. Gli scarti erano sacri.

Gli occorreva un po’ di tempo per riflettere.

Rothwild e dieci degli elementi chiave del progetto MAB s’erano riuniti nella stanza 233, un laboratorio vuoto utilizzato per le assemblee. Rosso di capelli, piccolo e attivo, Rothwild fungeva da supervisore e da mediatore fra la direzione e i ricercatori. In piedi, a lato dello schermo, esibiva un’elegante giacca color crema e impeccabili pantaloni scuri. Villar offrì a Vergil una sedia di plastica verde-avocado e sedette al suo fianco in fondo al locale, intrecciando le mani dietro la testa.

Rothwild esordì con un’introduzione: — Questa è la conclusione del nostro lavoro sul Modello E-64. Tutti voi avete contribuito… — Lanciò uno sguardo incerto a Vergil. — E ora potete condividerne il… uh, il trionfo. Penso che potremmo senz’altro chiamarlo così.

«L’E-64 è il prototipo di un biochip per endoscopia, dal diametro di tre centesimi di millimetro, proteina su un substrato di silicone, sensibile a quarantasette diversi elementi della circolazione sanguigna. — Si schiarì la gola. Tutti ne erano al corrente, ma quella era un’occasione ufficiale. — Il 10 maggio abbiamo inserito l’E-64 nell’arteria di un topo, richiuso la piccola incisione e lasciato andare il biochip nella corrente sanguigna. Il suo viaggio è durato cinque secondi. Il topo è stato quindi sacrificato per poter recuperare il biochip. Subito dopo la squadra del Dr. Terence ha ricavato le informazioni dal biochip e interpretato i risultati. Trasformando tali risultati tramite uno speciale programma d’immagini computerizzate, ci è stato possibile ottenere un vero e proprio filmato.

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