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Greg Bear: L'ultima fase

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Greg Bear L'ultima fase

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Vergil Ulam, brillante ricercatore dei Genetron Labs, sta lavorando segretamente ad un esperimento che promette risultati sensazionali, e cioè la produzione di nuclei intelligenti di materia cellulare, capaci di evolversi e di apprendere con straordinaria rapidità. Ma quando Ulam infrange le norme di sicurezza del laboratorio e viene licenziato, si rifiuta di distruggere il frutto delle sue ricerche, come gli è stato ordinato, e decide invece di iniettarsi nel sangue le colonie cellulari, e diventare così egli stesso la cavia di un nuovo straordinario esperimento. Ma sarà il primo di un incredibile processo di mutazione e trasformazione, i cui limiti non sono facilmente immaginabili, perché infatti è subito chiaro che questa forma di intelligenza virale può assorbire e riplasmare qualsiasi materia vivente. Un’epidemia assolutamente inattaccabile, un vero e proprio universo di miliardi di cellule senzienti in frenetica espansione, che lentamente inghiottono l’America del Nord, trasformandola in uno scenario “alieno” che suscita al tempo stesso orrore e meraviglia. Ma si può parlare di catastrofe? O non è piuttosto un nuovo gradino nella scala dell’evoluzione? E che ne sarà dell’umanità, letteralmente trasfigurata da questi microscopici organismi che rappresentano una nuova dimensione di ciò che si può concepire come “vita”? Nominato per il premio Nebula in 1985. Nominato per i premi Hugo, Campbell e BSFA in 1976.

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Fece un gesto a Ernesto, che premette un pulsante sul proiettore del videoregistratore. Apparve una grafica costruita col computer: il simbolo stilizzato della Genetron, immagini pubblicitarie preliminari, poi uno stacco al buio. Ernesto spense la luce.

Sullo schermo si disegnò un circolo, che s’allargò deformandosi in un ovale irregolare. Entro di esso comparvero altri circoli. — Abbiamo rallentato sei volte la velocità del viaggio — spiegò Rothwild, — e per semplificare le cose abbiamo eliminato le letture della concentrazione di sostanze chimiche nel sangue del topo.

Vergil si sporse in avanti sulla sedia, dimenticando per un momento i suoi guai. Correnti di colore ondeggiarono lungo il fluttuante tunnel di circoli concentrici.

— Sangue che scorre attraverso l’arteria — intervenne Ernesto.

Il viaggio giù per il vaso sanguigno del topo durò trenta secondi. Vergil ebbe per un momento la pelle d’oca: se i suoi linfociti potevano vedere, questo era l’ambiente che avrebbero percepito nel lasciarsi trasportare sull’onda dei battiti cardiaci… un lungo tunnel irregolare, il sangue che fluiva lento, brevi occhiate nelle diramazioni laterali, poi l’arteria si faceva più stretta… i circoli si stringevano sempre mutevoli, improvvisi sbalzi mentre il biochip urtava qua e là nelle pareti… e infine il termine del viaggio quando andava a incastrarsi in fondo a un capillare.

Il filmato diventò un riquadro bianco lampeggiante. La stanza risuonò di voci che si congratulavano a vicenda.

— Adesso — disse Rothwild con un sorriso, e alzò le mani per invocare un po’ d’ordine, — ci sono commenti prima che la registrazione venga mostrata ad Harrison e a Yng?

Vergil si unì alle celebrazioni brindando con un bicchiere di champagne, e tornando nel suo laboratorio si sentì più depresso che mai. Dov’era il suo spirito di collaborazione? Valeva davvero la pena di tenere per sé un progetto così ambizioso come i suoi linfociti? Questa era stata la sua risoluzione… ma a rischio di vedere l’esperimento interrotto, forse perfino annientato.

Mise i quaderni di appunti in una scatola di fogli da fotocopiatrice e la sigillò col nastro adesivo. Sul lato del laboratorio di Hazel trovò una scatoletta vuota con un’etichetta: «Schede. Conservare.» e la staccò. La appiccicò sulla sua scatola e poggiò quest’ultima in territorio «neutrale» accanto a un lavello. Quindi lavò i contenitori in vetro che aveva lasciato lì attorno e mise ordine sui suoi banconi.

Quando fosse venuto il momento dell’ispezione si sarebbe mostrato mite e supplichevole come l’ultimo degli impiegati: Harrison doveva assaporare la soddisfazione della sua vittoria.

E poi, di nascosto — nelle due settimane successive — avrebbe portato all’esterno tutto il materiale che gli serviva. I linfociti avrebbero dovuto attendere l’ultimo turno; per un po’ di tempo poteva tenerli senza danni nel frigorifero, a casa sua. Rubare siero nutritivo per non farli deperire sarebbe stato abbastanza facile, tuttavia questo gli toglieva ogni possibilità di lavorare su di loro.

Più tardi avrebbe studiato come trovare le condizioni per continuare alla meglio i suoi esperimenti.

Harrison comparve sulla soglia del laboratorio.

— Tutto a posto — lo accolse Vergil, doverosamente pentito.

III

Nella settimana seguente lo tennero d’occhio da vicino; poi, spostando l’attenzione sui test conclusivi dei prototipi di MAB, avevano richiamato i loro cani da guardia. Il suo comportamento era stato indenne da pecche.

Adesso poteva compiere gli ultimi passi del suo volontario allontanamento dalla Genetron.

Vergil non era stato il solo a oltrepassare i confini della larghezza di vedute in vigore alla Genetron. Appena un mese prima la direzione, sempre nella persona di Gerald T. Harrison, era scesa in picchiata sul lavoro di Hazel. La ricercatrice aveva sgarrato dai canoni con le sue colture di E. Coli , nel tentativo di dimostrare che il sesso era stato in origine il risultato dell’invasione di una sequenza autonoma di DNA — un parassita chimico chiamato fattore-F — nelle prime forme di vita procariotica. Con questo presupponeva che il sesso non sarebbe stato indispensabile all’evoluzione — almeno non alle donne, che in teoria potevano riprodursi per partenogesi — e che l’uomo avrebbe finito col divenire superfluo.

Aveva messo insieme abbastanza prove perché Vergil, ficcando il naso negli appunti di lei, fosse d’accordo con le sue conclusioni. Ma il lavoro di Hazel non corrispondeva all’etica della Genetron. Era rivoluzionario, possibile fonte di controversie sociali. Harrison aveva pronunciato il verdetto; lei s’era ritirata da quella particolare branca di ricerche.

La Genetron non intendeva farsi pubblicità alimentando controversie scientifiche o sociali. Non ancora. Aveva bisogno di una reputazione senza macchia per il momento in cui avrebbe reso pubblici i suoi prodotti annunciando che stava realizzando MAB efficienti.

Nessuno s’era però preoccupato degli appunti di Hazel. Il fatto che Harrison avesse messo le mani sui suoi dati inseriti nel computer preoccupava Vergil.

Quando fu sicuro che la sorveglianza s’era allentata, cominciò a darsi da fare. Chiese il permesso di usare il computer della compagnia (permesso che gli era stato sospeso fino a nuovo ordine) e per non destare sospetti dichiarò che doveva visionare le strutture tridimensionali delle proteine da lui realizzate. Il permesso gli fu dato, e una sera dopo le otto poté sedersi alla tastiera del terminale nel laboratorio comune.

Vergil era nato troppo presto per essere classificato un bambino prodigio dei computer, ma negli ultimi sette anni aveva alterato la registrazione dei suoi documenti nella memoria elettronica di tre importanti ditte, e li aveva inseriti anche in quella di una famosa università. Questo era servito come supporto per la sua assunzione alla Genetron. Non provava alcun senso di colpa per quelle intrusioni e manipolazioni di dati.

A suo avviso la stima di cui godeva era meritata, e non vedeva perché avrebbe dovuto pentirsi se per ottenerla aveva forzato un po’ le cose. Sapeva d’essere pienamente all’altezza del lavoro che faceva alla Genetron: le false registrazioni introdotte negli archivi dell’università erano soltanto sviolinate per gli orecchi dei capi del personale che si pascevano di titoli e di aggettivi. D’altra parte Vergil era vissuto nella convinzione — fino a due anni prima — che il mondo fosse il suo personale videogame, e che ogni soluzione da lui trovata per sconfiggerlo, inclusa la manomissione di computer, fosse semplicemente consona alla sua natura.

Trovò ridicolmente facile aggirare il codice-chiave di Rinaldi messo a protezione dell’archivio segreto della Genetron. Per lui non c’erano misteri nei numeri di Godei e nelle sequenze di cifre digitali che apparvero sullo schermo. Si destreggiò fra i dati e le informazioni riservate come un pesce nell’acqua.

Trovò il suo fascicolo personale, e inserì un’equazione per chiudere con una chiave elettronica quella sezione della memoria. Poi decise che tanto valeva giocare sul sicuro: c’era sempre la possibilità, per quanto remota, che qualcun altro fosse più ingegnoso di lui. Cancellò completamente i suoi dati dal computer.

Ora il suo programma prevedeva di localizzare i documenti medici degli impiegati. Alterò tutti i termini della sua assicurazione, e i circuiti che avrebbero rivelato l’intrusione. Adesso qualsiasi richiesta d’informazioni sul suo conto dall’esterno lo avrebbe trovato ben coperto, anche dopo il suo allontanamento, e non ci sarebbero mai state domande circa i premi assicurativi che non aveva pagato.

Questo fatto però lo lasciò molto perplesso. La sua salute non era tale da poter fare del tutto a meno dell’assistenza medica.

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