Greg Bear - L'ultima fase

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L'ultima fase: краткое содержание, описание и аннотация

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Vergil Ulam, brillante ricercatore dei Genetron Labs, sta lavorando segretamente ad un esperimento che promette risultati sensazionali, e cioè la produzione di nuclei intelligenti di materia cellulare, capaci di evolversi e di apprendere con straordinaria rapidità. Ma quando Ulam infrange le norme di sicurezza del laboratorio e viene licenziato, si rifiuta di distruggere il frutto delle sue ricerche, come gli è stato ordinato, e decide invece di iniettarsi nel sangue le colonie cellulari, e diventare così egli stesso la cavia di un nuovo straordinario esperimento. Ma sarà il primo di un incredibile processo di mutazione e trasformazione, i cui limiti non sono facilmente immaginabili, perché infatti è subito chiaro che questa forma di intelligenza virale può assorbire e riplasmare qualsiasi materia vivente. Un’epidemia assolutamente inattaccabile, un vero e proprio universo di miliardi di cellule senzienti in frenetica espansione, che lentamente inghiottono l’America del Nord, trasformandola in uno scenario “alieno” che suscita al tempo stesso orrore e meraviglia. Ma si può parlare di catastrofe? O non è piuttosto un nuovo gradino nella scala dell’evoluzione? E che ne sarà dell’umanità, letteralmente trasfigurata da questi microscopici organismi che rappresentano una nuova dimensione di ciò che si può concepire come “vita”?
Nominato per il premio Nebula in 1985.
Nominato per i premi Hugo, Campbell e BSFA in 1976.

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— Lo sapevo — disse lei, ripiegandosi su se stessa. — Sto sognando. — I suoi fratelli la guardarono, sorrisero e scossero il capo.

— No, non stai sognando — disse Kenneth. — Siamo tornati.

Silenziosamente l’ascensore li portò su per i venticinque piani che restavano.

— È uno scherzo — mormorò lei, sentendo le lacrime scivolarle calde giù per le guance. — Questo è crudele.

— D’accordo, la parte che riguardava la camera da letto, la casa… consideralo un sogno. C’era lì altra roba che probabilmente non ti avrebbe fatto piacere vedere. Ma noi siamo qui. Siamo di nuovo con te.

— Voi siete morti — disse lei. — Anche Mamma.

— Siamo diversi — disse Howard. — Ma non morti.

— Ah! E cosa siete allora, zombies? Dio ci protegga!

— Loro non ci hanno uccisi — spiegò Kenneth. — Ci hanno solo… smantellati. Come tutti gli altri.

— Be’, quasi tutti gli altri. — Howard indicò lei, e i due giovanotti sorrisero.

— Tu non hai avuto fortuna, sei stata lasciata da parte — disse Kenneth.

Adesso la ragazza aveva paura. La porta dell’ascensore si aprì, e uscirono in una sala piena di eleganti specchi. Le luci elettriche si riflettevano in un’infinità di superfici. Le luci erano accese. L’ascensore funzionava. Era chiaro che stava sognando, oppure era definitivamente diventata pazza.

— Qualcuno è morto, però — disse Kenneth con gravità, prendendola per mano. — Incidenti, errori.

— Questa è solo una parte di ciò che sappiamo, adesso — disse Howard.

Oltrepassarono il corridoio di specchi, un nido di cristalli ornamentali tagliato in due, un monumentale frammento di quarzo rosa e un alto nodulo di malachite. Sulla porta del ristorante nessuno si fece loro incontro. — Mamma è dentro — disse Howard. — Se hai fame c’è una quantità di roba da mangiare qui, puoi starne certa.

— C’è la corrente elettrica — disse lei.

— Il generatore d’emergenza, nei sotterranei. Ha funzionato per un po’ dopo che la centrale si è fermata, ma poi è finito il carburante. Capisci? Così ne abbiamo trovato dell’altro. Loro ci hanno detto come funziona e lo abbiamo riacceso prima di venire a cercarti — disse Howard.

— Sì. E dato che per loro era difficile ricostruire molta gente lo hanno fatto soltanto con Mamma e noi. Non ci sono gli inservienti del grattacielo, né gli altri. Abbiamo fatto noi tutto il lavoro. Tu hai dormito per un bel po’, sai.

— Due settimane.

— Ecco perché il tuo ginocchio è guarito.

— Quello, e…

— Ssssh! — lo zittì Kenneth, mettendo una mano su un braccio al fratello. — Non tutto in una volta. — Suzy spostò lo sguardo dall’uno all’altro, mentre la conducevano nel ristorante.

Era tardo pomeriggio. La città, chiaramente visibile dalle larghe finestre panoramiche del locale, non era più ricoperta dallo strato biancastro e marroncino.

La ragazza non riuscì a riconoscere nessun punto di riferimento. In precedenza aveva almeno potuto discernere gli edifici dalla forma, le strade dalla posizione, e i contorni dei quartieri a lei noti.

Il luogo non era più lo stesso.

Forme nere e grigie, sconcertante biancore di marmi, edifici piramidali, immensi poliedri dai molti lati alcuni dei quali traslucidi come vetro o ghiaccio. Lastroni alti centinaia di metri erano in fila come pezzi del domino lungo quella che una volta era stata West Street, da Battery Park fino a Riverside Park. Tutti gli stabili e i grattacieli di Manhattan erano stati smontati a pezzi, rimescolati, quindi costruiti in altro modo e ridipinti.

Ma le strutture non le sembravano più di cemento e acciaio. Non aveva idea di cosa fossero fatte.

Erano vive.

Sua madre era seduta a un lungo tavolo ricoperto di cibarie. C’erano insalate di diverso genere intorno a un grosso prosciutto parzialmente affettato, vassoi di olive e antipasti sulla destra, dessert e paste sulla sinistra. La donna sorrise e si alzò, girando intorno al tavolo col suo passo elastico da ex giocatrice di tennis, e le tese le braccia. Indossava una gonna costosa di sartoria, un’elegante camicetta a maniche lunghe guarnita di pizzi e ricami, e appariva assolutamente terrificante.

— Suzy — le disse. — Non guardarmi con quell’aria sconvolta, via. Siamo venuti a farti visita.

La ragazza abbracciò sua madre, sentì il suo corpo di solida carne e smise di pensare che tutto fosse un sogno. Era realtà. I suoi fratelli non l’avevano prelevata davvero da casa loro (una cosa simile non sarebbe stata reale… o sì?) ma l’avevano portata lì in ascensore, e lì lei era davanti a sua madre, calda e piena d’amore e desiderosa di nutrire bene la sua bambina.

E oltre le spalle di sua madre, fuori dalla finestra, c’era la città cambiata. Quella non poteva essere un’allucinazione. O poteva?

— Che sta succedendo, Mamma? — domandò, asciugandosi le lacrime e facendo un passo indietro. Guardò Howard e Kenneth.

— L’ultima volta che ti ho vista eravamo in cucina — le ricordò sua madre. — Non mi andava molto di parlare in quel momento. Mi stavano accadendo un sacco di cose.

— Eri malata — balbettò Suzy.

— Sì… e no. Vieni a sederti. Devi avere appetito, eh?

— Se ho dormito per due settimane dovrei essere morta… morta di fame — disse lei.

— Ancora non ci crede — sogghignò Howard.

— Taci tu. — La donna gli accennò di scostarsi. — Neppure voi due ci credereste, al suo posto, no?

Loro ammisero che probabilmente non ci avrebbero creduto.

— Ho fame , però — confessò Suzy. Kenneth le scostò una sedia e la fece accomodare a un tavolo, coperto da un’immacolata tovaglia e con posate d’argento.

— Può darsi che ti abbiamo fatta svegliare in modo troppo fantasioso — sospirò Howard. — Troppo simile a un sogno.

— Sì — annuì Suzy. D’improvviso si sentiva euforica, felice, e non le importava più di sapere cos’era reale. — Voi pagliacci avete esagerato.

Sua madre le riempì un piatto con prosciutto e insalata, e lei indicò con un dito anche la purea di patate e il sugo di carne.

— Tutta roba che fa ingrassare — commentò Kenneth.

— Tsk! — Suzy scrollò le spalle. Infilò con la forchetta una fetta di prosciutto e lo masticò. Reale. Mordicchiò la forchetta. Reale. — Voi sapete cos’è successo?

— Non tutto — disse sua madre, sedendo accanto a lei.

— Noi potremmo essere molto più intelligenti adesso, se volessimo — disse Howard. Per un momento Suzy si sentì ferita; si stava riferendo a lei? Howard s’era sempre vergognato dei propri risultati scolastici; era un lavoratore volonteroso, ma non certo brillante. Tuttavia era sempre stato più intelligente della sua sorellina un po’ tarda.

— Non abbiamo neppure più bisogno dei nostri corpi — disse Kenneth.

— Piano, piano — li ammonì la madre. — È una cosa molto complicata, tesoro.

— Noi siamo i dinosauri, adesso — disse Howard, allungando una mano per prendere una fetta di prosciutto. La esaminò con una smorfia e la rimise nel vassoio.

— Quando eravamo ammalati… — cominciò sua madre.

Suzy depose la forchetta e nel masticare si accigliò, ascoltando non le parole della donna ma qualcos’altro.

Curato te

Rallegrato te

Necessario

— Oh, mio Dio! — disse sottovoce, con la bocca ancora piena di prosciutto. Deglutì il boccone e li guardò. Poi alzò una mano. Sul dorso c’erano alcune linee bianche che si estendevano al polso e all’avambraccio formando lievi disegni sotto la pelle.

— Non aver paura, Suzy — disse sua madre. — Ti prego, non aver paura. Loro ti hanno lasciata stare perché non avrebbero potuto entrare nel tuo corpo senza ucciderti. Tu hai una chimica insolita, cara. E così anche pochi altri. Questo non è più un problema. Ma la scelta è tua, tesoro. Solo, ascolta quello che ti diciamo noi… e loro. Adesso si sono evoluti molto di più, bambina. Sono più capaci di quando entrarono dentro di noi.

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