Greg Bear - L'ultima fase

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L'ultima fase: краткое содержание, описание и аннотация

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Vergil Ulam, brillante ricercatore dei Genetron Labs, sta lavorando segretamente ad un esperimento che promette risultati sensazionali, e cioè la produzione di nuclei intelligenti di materia cellulare, capaci di evolversi e di apprendere con straordinaria rapidità. Ma quando Ulam infrange le norme di sicurezza del laboratorio e viene licenziato, si rifiuta di distruggere il frutto delle sue ricerche, come gli è stato ordinato, e decide invece di iniettarsi nel sangue le colonie cellulari, e diventare così egli stesso la cavia di un nuovo straordinario esperimento. Ma sarà il primo di un incredibile processo di mutazione e trasformazione, i cui limiti non sono facilmente immaginabili, perché infatti è subito chiaro che questa forma di intelligenza virale può assorbire e riplasmare qualsiasi materia vivente. Un’epidemia assolutamente inattaccabile, un vero e proprio universo di miliardi di cellule senzienti in frenetica espansione, che lentamente inghiottono l’America del Nord, trasformandola in uno scenario “alieno” che suscita al tempo stesso orrore e meraviglia. Ma si può parlare di catastrofe? O non è piuttosto un nuovo gradino nella scala dell’evoluzione? E che ne sarà dell’umanità, letteralmente trasfigurata da questi microscopici organismi che rappresentano una nuova dimensione di ciò che si può concepire come “vita”?
Nominato per il premio Nebula in 1985.
Nominato per i premi Hugo, Campbell e BSFA in 1976.

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— Lo smog c’è sempre — la corresse Jerry. — Ma non sembra lo stesso.

— Smog porpora. — John scosse il capo con una risatina.

— Ora, se siamo d’accordo d’avere visto la valle…

— Sì — borbottò Jerry. — Forse era quella.

— Allora c’era qualcosa nella valle, tutto sparso attorno.

— Ma non solido. Non fatto di materia solida — disse sottovoce John.

— Credo anch’io — annuì April. — Energia, allora?

— Sembravano chiazze sparpagliate, come un quadro di Jackson Pollack — disse Jerry.

— O uno di Picasso — aggiunse John.

— Sono d’accordo, signori, con una piccola riserva: a me sembrava molto di più un Max Ernst.

— Non so niente di lui — si accigliò Jerry.

— Qualcosa roteava là in mezzo. Un tornado.

April assentì. — Già. Ma che genere di tornado?

John si sfregò gli occhi con le dita. — Più largo alla base, con spunzoni di tutte le specie che ne schizzavano fuori… come fulmini, ma senza luce. Come ombre di fulmini.

— Che toccavano — disse John — e poi sparivano.

— Un tornado ballerino, magari — suggerì April.

— Sì — dissero i gemelli.

— Io ho visto file di dischi che ondeggiavano dentro e fuori, sotto il tornado — continuò lei. — E voi no?

I due scossero la testa all’unisono.

— E sulle colline luci in movimento, come lucciole che si affollassero verso il cielo. — Negli occhi le brillò ancora uno sguardo esaltato, mentre li abbassava sognanti sul fuoco. John unì le mani dietro la nuca e scosse di nuovo il capo.

— Irreale — disse.

— Proprio così. Del tutto irreale. Ma deve avere una connessione con ciò che ha fatto mio figlio.

— Balle! — brontolò John.

— No — disse Jerry. — Io le credo.

— Se ha cominciato a La Jolla, per spargersi poi dappertutto, dove può essere il luogo in cui la cosa è andata più avanti?

— A La Jolla. — Jerry la guardò con aria interrogativa. — Forse è partita dall’UCSD.

April scosse il capo. — No, a La Jolla, dove Vergil abitava e lavorava. Ma è dilagata in fretta su e giù per la costa. Forse fin giù a San Diego, e poi si è riunita tutta quanta e ha fatto di questo luogo il suo centro.

— Fottute balle — ripeté John.

April disse: — Non possiamo andare a La Jolla, non con quella roba a sbarrarci la strada. E io sono venuta qui per cercare mio figlio.

— Lei è pazza, ecco quello che penso — disse John.

— Non ho idea del perché voi due gentiluomini siete stati risparmiati — disse lei. — Ma è chiaro il perché lo sono stata io.

— Perché è sua madre? — ridacchiò Jerry, annuendo come ad approvare la propria deduzione.

— Esattamente — replicò April. — Perciò, gentiluomini, domani oltrepasseremo queste colline, e se volete potrete venire con me. Altrimenti proseguirò anche da sola e andrò a raggiungere mio figlio.

Jerry tornò serio. — April, questa è una follia. Che farebbe se trovasse qualcosa di veramente pericoloso come un tempesta elettrica o una centrale a energia nucleare sul punto di esplodere?

— Non ci sono centrali a energia nucleare a Los Angeles — disse John. — Ma Jerry ha ragione. È da idioti solo pensare di poter camminare dentro quell’inferno.

— Se mio figlio è li, non mi succederà niente di male — disse April.

Jerry riattizzò rabbiosamente il fuoco. — La porterò fin là — borbottò. — Ma non verrò con lei.

John gettò al fratello un’occhiata dura. — Vi ha dato di volta il cervello a tutti e due.

— Posso sempre andarci a piedi — stabilì cocciutamente April.

Con le mani sui fianchi e una smorfia risentita sul volto John guardava il fratello e April Ulam che camminavano verso il furgone. La dolciastra nebbia purpurea che saliva dal bacino di Los Angeles fin sui pendii alberati sopra Fort Tejon filtrava la luce del mattino, creando un fantomatico panorama senza ombre.

— Ehi! — gridò John. — Maledizione, ehi! Non lasciatemi qui! — Corse dietro a loro.

Il fulgore seguì la strada deserta fino sulla dorsale delle colline, e i tre spinsero lo sguardo sul maelstrom sottostante. Non sembrava molto diverso nel fulgore del sole.

— È come tutti gli incubi che ho avuto in vita mia, arrotolati su in un blocco unico — disse Jerry, che guidava con attenzione.

— Non è un paragone malvagio — annuì April. — Un tornado di sogni. Forse i sogni di tutti quelli che sono stati presi nel cambiamento.

John poggiò le mani sul cruscotto e guardò giù verso la valle. — C’è ancora un miglio di strada libera — disse. — Poi dovremo fermarci.

Jerry fece un cenno d’assenso. Il veicolo rallentò.

A una velocità inferiore ai dieci km l’ora si avvicinarono a una cortina verticale di nebbia danzante. Era alta dai trenta ai quaranta metri e si estendeva ai due lati della strada, torcendosi attorno a vaghe forme arancione che un tempo potevano essere stati edifici.

— Gesù, Gesù! — sussurrò John.

— Ferma — ordinò April. Jerry arrestò il furgone. La donna fissò John finché lui non si decise ad aprire la portiera e a scostarsi per lasciarla uscire. Jerry spostò in folle la leva del cambio e mise il freno a mano, quindi scese dall’altra parte.

— Voialtri, signori, avete perso quelli che amavate, vero? — domandò April, lisciandosi la gonna spiegazzata. Il maelstrom ruggiva in distanza come un uragano: ruggiva e soffiava con un rumore di pioggia che scrosciasse giù per una grondaia.

John e Jerry accennarono di sì.

— Se il mio Vergil è lì dentro, e io so che c’è, allora devono esserci anche loro. Oppure lì c’è il modo di raggiungerli.

— È la cosa più stupida che abbia mai sentito — disse John. — Mia moglie e mio figlio non possono essere lì.

— Perché no? Sono morti?

John la fissò accigliato.

— Lei sa che non sono morti. E io so che mio figlio non è morto.

— Lei è una strega — la accusò Jerry, quasi con ammirazione.

— Altri l’hanno detto. Anche il padre di Vergil, prima di lasciarmi. Ma voi sapete. Non è così?

John ebbe un tremito. Due lacrime gli scivolarono sulle guance. Jerry fissò la cortina di nebbia con una smorfia.

— Saranno là dentro, John? — chiese al fratello.

— Non lo so. — Lui tirò su col naso e se lo asciugò su una manica.

April s’avviò verso la cortina. — Grazie per l’aiuto, gentiluomini — disse. Mentre penetrava nella nebbia cominciò a distorcersi come un’immagine televisiva fuori sintonia, e poi scomparve.

— Gesù, guarda! — ansimò John, con un brivido.

— Ha ragione lei — mormorò Jerry. — Non lo senti?

— Non lo so! — gemette John. — Cristo, fratello, non lo so!

— Andiamo a cercarli — disse Jerry, prendendolo per mano. Lo incitò con un cenno del capo. John fece resistenza.

Jerry lo spinse avanti.

— E va bene — stabilì John sottovoce. — Insieme.

Fianco a fianco percorsero gli ultimi metri di discesa ed entrarono nella parete di nebbia.

XXXVI

Quando fu all’ottantaduesimo piano le gambe le cedettero di colpo. Con un gemito e una mezza giravolta cadde, battendo la testa sulla ringhera e un ginocchio contro l’orlo di uno scalino, proprio sotto la rotula. La torcia elettrica e la radio le volarono via dalle mani, sul pianerottolo. Il contenitore dell’acqua si spaccò in due, inzuppandola e rotolando via, ed ella non poté fare altro che seguirlo con gli occhi, paralizzata dal dolore. Le parvero ore — ma probabilmente furono solo pochi minuti — prima che trovasse la forza di trascinarsi sul pianerottolo. Lì giacque sulla schiena, con occhi velati dalla sofferenza ma incapace di piangere.

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