Greg Bear - L'ultima fase

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L'ultima fase: краткое содержание, описание и аннотация

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Vergil Ulam, brillante ricercatore dei Genetron Labs, sta lavorando segretamente ad un esperimento che promette risultati sensazionali, e cioè la produzione di nuclei intelligenti di materia cellulare, capaci di evolversi e di apprendere con straordinaria rapidità. Ma quando Ulam infrange le norme di sicurezza del laboratorio e viene licenziato, si rifiuta di distruggere il frutto delle sue ricerche, come gli è stato ordinato, e decide invece di iniettarsi nel sangue le colonie cellulari, e diventare così egli stesso la cavia di un nuovo straordinario esperimento. Ma sarà il primo di un incredibile processo di mutazione e trasformazione, i cui limiti non sono facilmente immaginabili, perché infatti è subito chiaro che questa forma di intelligenza virale può assorbire e riplasmare qualsiasi materia vivente. Un’epidemia assolutamente inattaccabile, un vero e proprio universo di miliardi di cellule senzienti in frenetica espansione, che lentamente inghiottono l’America del Nord, trasformandola in uno scenario “alieno” che suscita al tempo stesso orrore e meraviglia. Ma si può parlare di catastrofe? O non è piuttosto un nuovo gradino nella scala dell’evoluzione? E che ne sarà dell’umanità, letteralmente trasfigurata da questi microscopici organismi che rappresentano una nuova dimensione di ciò che si può concepire come “vita”?
Nominato per il premio Nebula in 1985.
Nominato per i premi Hugo, Campbell e BSFA in 1976.

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— Devi esser stato un uomo molto ricco, e avere fatto un sacco di soldi — disse al vestito grigio, alla camicia di seta e alle scarpe. — Voglio dire, qui è tutto elegante e bello. Ti ringrazierei, se potessi. — La bottiglia era finita e la depose in un cestino per la cartastraccia sotto la scrivania, anch’esso in mogano.

La poltrona era abbastanza comoda da prestarsi a un pisolino, ma lei contava di trovare un letto. Sul suo vecchio televisore aveva visto spesso che gli alti dirigenti avevano camere da letto private annesse agli uffici. Quello era un ufficio così lussuoso che non poteva esserne privo. Decise però d’essere troppo stanca per alzarsi e andare a cercarla.

Mentre il sole scendeva sul New Jersey si massaggiò le gambe irrigidite dalla fatica.

La maggior parte della città, a quanto poteva vedere da lì, era nascosta sotto una tappezzeria marroncina e nerastra. Non riusciva a descriverla in un modo migliore. Qualche tappezziere era andato attorno ricoprendo di quel lenzuolo gli edifici di tutta Manhattan fino al decimo e anche al ventesimo piano. Di tanto in tanto vedeva ampi stralci di quel materiale sollevarsi nell’aria e svolazzare via, come avevano fatto a Brooklyn, ma adesso quel tipo d’attività era diminuito.

— Arrivederci, sole — disse. La rimanente sezione del disco rosso rimpicciolì, scomparve, e per la prima volta in vita sua lei vide, nell’estremo bagliore di luce riflessa, un brevissimo lampo verde. Alla scuola superiore gliene avevano parlato; l’insegnante aveva detto che si trattava di un fenomeno molto raro (anche se non s’era preoccupato di spiegare cosa lo produceva) e la ragazza sorrise compiaciuta: lo aveva visto, infine.

— Sono una privilegiata, questo è tutto — disse. Un’idea cominciò a prendere forma in lei. Non sapeva se si trattasse di una delle sue premonizioni bislacche o soltanto di un sogno a occhi aperti. La sorvegliavano. Il lenzuolo marrone stava spiando lei. Il fiume. Il mucchietto di vestiti. Qualsiasi cosa fosse, la sostanza in cui la gente s’era trasformata la teneva d’occhio. Non era uno spiare maligno, perché Suzy sentiva di piacere a quella cosa. Ma lei non si sarebbe trasformata, non finché avrebbe continuato a fare quel che stava facendo.

— Be’, andiamo a cercare un letto adesso — stabilì, alzandosi dalla poltrona. — Simpatico quest’ufficio — disse al mucchietto degli abiti.

Nell’anticamera, dietro la scrivania della segreteria, c’era una piccola porta priva di contrassegni. La spinse e vide un ripostiglio pieno di fogli e cancelleria ordinata su uno scaffale, e fissata al muro una cassetta metallica su cui brillava una spia rossa. Lì continuava ad arrivare l’elettricità. Forse si trattava di un impianto antifurto, pensò, alimentato a batterie. Forse un impianto antincendio. Chiuse la porta e s’avviò nella direzione opposta. Sulla destra dell’ufficio principale c’era un’altra porta, su cui una targhetta d’ottone diceva Privato. Lei annuì fra sé e girò la maniglia. La trovò chiusa, però era ormai diventata un’esperta sgominatrice di serrature. Frugò nella scrivania, vi trovò chiavi che sembravano andare bene e le provò. Il secondo tentativo fu quello buono. Spinse la maniglia e aprì la porta.

La stanza era buia. Accese la torcia elettrica e il fascio di luce le mostrò un letto dall’aria confortevole, un comodino un tavolo con un piccolo computer in un angolo e…

Suzy gridò di spavento. Sentì un tonfo e con la coda dell’occhio vide una piccola forma muoversi sotto il tavolo, mentre altre scivolavano sotto il letto. Risollevò la torcia: da oltre il letto una specie di tubo si alzò verticalmente. Sulla cima di esso c’era un oggetto pieno di sporgenze triangolari e corti lacci che pendevano attorno, che ondeggiò come per sfuggire alla luce. Qualcosa di piccolo e scuro passò velocemente fra i piedi della ragazza, che balzò indietro e puntò la torcia al suolo.

Avrebbe potuto essere un topo, ma era troppo grosso e di tutt’altra forma, e non assomigliava neppure a un gatto. Possedeva molti occhi, o comunque fessure luccicanti, intorno alla testa, ma aveva soltanto tre zampe coperte di peluria rossa. Lo vide correre nell’ufficio del dirigente. Chiuse di colpo la porta della camera da letto e indietreggiò, con le mani sulla bocca.

Al diavolo la cima del grattacielo. Non le importava più nulla.

Il corridoio che usciva dall’anticamera era sgombro. Con mani tremanti raccolse la radio, la tanichetta dell’acqua e la borsa dalla scrivania della segretaria; agganciò il manico del contenitore alla cintura e si gettò la borsa a tracolla. — Gesù! Gesù! — sussurrò. Corse via per il corridoio, con la tanichetta che le batteva su una coscia, e spalancò la porta delle scale. — Giù! — ansimò. — Giù, giù, giù! — Avrebbe dovuto fuggire da quel grattacielo. Se ai piani superiori c’erano cose di quel genere non aveva scelta. I suoi stivaletti ticchettarono rapidamente giù per le scale. Ad un tratto la borsa le s’impigliò nella ringhiera e si spaccò da cima a fondo: cracker e scatolette e brioches volarono sugli scalini. Un vasetto andò in pezzi, e una confezione di prugne secche rimbalzò e rotolò fin sul pianerottolo inferiore.

Lei esitò, corse a raccogliere le prugne, e nel girarsi vide il muro:era coperto da uno strato di sostanza bianca e marroncina. Lentamente, a occhi sbarrati, girò lo sguardo sulla ringhiera. Filamenti biancastri stavano risalendo lungo di essa, tortuosi e oscillanti, ed altri avanzavano sulla porta e sul muro esterno.

— No! — gemette. — Maledetti, no! Lasciatemi stare, lasciatemi andare via da qui! — Ciecamente si gettò contro la ringhiera e colpì i filamenti con i pugni chiusi, spellandosi e graffiandosi le dita. Il suo volto era rigato di lacrime. — Non toccatemi! Andatevene! - gridò. Ma il lenzuolo marroncino continuò a muoversi verso di lei.

Doveva salire. Qualunque cosa ci fosse più in alto doveva rischiare. Colpire quella roba con la scopa era un conto, ma camminarci in mezzo… no, questo sarebbe stato troppo per lei, avrebbe finito col farla impazzire.

Raccolse tutto il cibo che poteva e se ne riempì le tasche. Nel ristorante doveva pur esserci qualcosa da mangiare.

— Non voglio neppure pensarci! — disse a se stessa, e continuò a ripeterselo più volte. Ma non si riferiva al cibo che in quel momento era l’ultima delle sue preoccupazioni. Ciò che non voleva pensare era quel che avrebbe fatto dopo essere arrivata in cima al grattacielo.

Quel mare di sostanza sottile color cuoio aveva evidentemente deciso di sommergere l’intera città, perfino gli ultimi piani del World Trade Center.

E questo avrebbe lasciato molto poco spazio per Suzy McKenzie.

XXXI

Volgendosi verso il sole nascente April Ulam si fece schermo agli occhi. I generatori a vento di Tracy erano silhouette possenti contro l’arancione del cielo, e le pale ancora in movimento continuavano a mandare energia elettrica alla stazione di servizio dove i gemelli avevano rifornito il furgone. La donna fissò John e annuì senza parlare: sì, proprio così, quello era un altro giorno. Poi entrò nel piccolo negozio di alimentari a dirigere le scelte di Jerry che era entrato in cerca di cibo.

John stabilì che era molto più dura e decisa di quel che sembrava. Pazza o no, lui e il fratello pendevano dalle sue labbra. Avevano trascorso la notte lì al distributore, esausti benché non si fossero allontanati che di una quarantina di chilometri da Livermore. La sera prima avevano deciso di prendere la statale al centro della valle. Era stata April a suggerirlo, dicendo che sarebbe stato meglio evitare le zone un tempo molto popolate. — A giudicare da quanto è successo a Livermore — aveva detto — dobbiamo cercare di non cacciarci in trappola a San Josè o in posti simili.

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