Canticchiando Michelle e con una mano sulla ringhiera salì da un piano all’altro, oltrepassando porta dopo porta. Ciò che le serviva era un ritmo. Una volta Kenneth e Howard l’avevano portata a fare una lunga camminata, nel Maine, e aveva imparato che ogni tipo di marcia doveva avere il suo ritmo. Seguendolo si andava avanti con facilità; rompere il ritmo o cambiarlo significava maggior dispendio di energie.
— Ma non ho nessuno da seguire — sospirò al quarto piano. Tentò di ricominciare con Michelle ma quel ritmo non si adattava al suo passo, così fischiettò una marcetta di John Williams. Al nono piano scoprì di avere il fiato grosso. — Un altro ancora. — E al decimo cadde a sedere con la schiena appoggiata al muro oltre cui c’era il pozzo dell’ascensore, di fronte alla porta. — Forse non è stata una buona idea. — Ma lei era testarda (sua madre lo diceva sempre, con un certo orgoglio) e perciò avrebbe continuato. — Non c’è altro da fare — disse, e la sua voce risuonò nel silenzio assoluto della scale.
Appena ebbe ripreso fiato si alzò, sistemò meglio il contenitore dell’acqua e la borsa, andò alla porta e la aprì. Su per un’altra rampa, un altro pianerottolo e un’altra porta, altri corridoi e altri uffici. Decise di esplorare una delle varie sale di attesa.
— Vediamo se c’è dell’acqua — disse. Davanti a lei c’erano due porte: Uomini e Donne. Ridacchiò fra sé e poi scelse quella Uomini. Spostando il raggio della torcia elettrica sugli specchi e sugli infissi fu colta dalla curiosità e avanzò lungo i lavandini. Non aveva mai visto prima gli alti infissi in ceramica bianca allineati verticalmente lungo il muro. Aveva anche dimenticato come si chiamavano. Gettò un’occhiata sotto le porte dei cessi e rabbrividì, mentre la sua curiosità si mutava in un fremito di paura e di pena.
Dentro uno di essi alcuni abiti giacevano al suolo. — Risucchiato giù nel gabinetto — mormorò, raddrizzandosi, e si asciugò le lacrime che le erano spuntate negli occhi. — Poveraccio. Dio lo accolga. — Terminò di tamponarsi gli occhi con una manica della blusa, quindi girò il rubinetto dell’acqua calda di un lavandino. Ne uscì un breve rigagnolo. Da quello della fredda ne sgorgò di più, ma anche lì mancava la pressione.
Usci dai gabinetti e s’incamminò per un corridoio. Oltre una grossa doppia porta di legno con inciso un nome che suonava giapponese scoprì una sala d’attesa, divani di morbido velluto e tavolini di vetro, e sul fondo una massiccia scrivania. Dietro di essa non c’erano vestiti al posto occupato un tempo dalla receptionist. E non c’era nulla che la interessasse.
Dalla finestra del locale guardò giù nella piazza. Il cemento era adesso completamente coperto da uno strato marrone. Sali , disse a se stessa. Tutte le scale portano al cielo. Se morirai lassù sarai più vicina al Paradiso. Sali.
— È come scendere nella gola di una balena — bofonchiò John.
— Gesù, sei delicato!
— E con questo? A te piace qui dentro?
— Già — rifletté Jerry. Grugnì e rallentò il passo. — Ci stiamo comportando da idioti. Perché siamo scesi qui , e perché adesso ?
— Quel buco l’hai aperto tu.
— E non so perché. Forse proprio senza nessuna ragione.
— Una ragione vale l’altra, suppongo.
Mentre avanzavano poterono vedere che le pareti del tunnel cambiavano aspetto. I grossi tubi color carne si ramificavano in una rete di sostanza lucida simile a trippa spruzzata di vernice trasparente. John avvicinò il volto e la lampada per esaminarla, e scorse minuscole incavature piene di quelli che sembravano dischetti, cubi e palline ammucchiati confusamente. Il percorso si restringeva, e la spugnosa pavimentazione purpurea si sollevava in creste parallele ai muri del tunnel. — Drenaggio — ipotizzò Jerry, indicandole.
Sostavano di continuo qua e là il raggio della torcia per tranquillizzarsi con la sua luce, a tratti puntandosela in faccia a vicenda, o ispezionandosi la pelle e i vestiti per accertarsi che nulla si stesse arrampicando loro addosso.
D’improvviso il tunnel si allargò e intorno a loro roteò densa la nebbia dolciastra. — Abbiamo camminato abbastanza da essere finiti sotto un altro monticello — disse Jerry. Si fermò e sollevò uno stivale da qualcosa di vischioso. — Il pavimento è tutto coperto da questa robaccia.
John gli diresse il raggio sullo scarpone. La suola grondava di poltiglia bruno-rossiccia. — Non sembra molto profonda — disse.
— Non ancora, comunque. — La foschia aveva un vago odore di fertilizzante, o di salmastro. Viveva. Circolava in veli alti e spessi, come imprigionata fra cortine d’aria.
— Da che parte adesso? Non possiamo stare qui a guardarci attorno — disse Jerry.
— Sei tu il capo — replicò John. — Non chiedere a me una decisione.
— C’è un puzzo come di alghe e di pasticceria — brontolò Jerry. — Mi confonde il naso.
— Funghi — disse John, puntando la luce a terra. Tutto intorno ai loro piedi spuntavano bolle biancastre larghe pochi centimetri, che vibravano mollemente a contatto delle scarpe. Rialzò la lampada e vide linee orizzontali e verticali che intersecavano la nebbia davanti a loro.
— Scaffalature — disse Jerry. — Ripiani con certa roba che ci cresce sopra. — Gli scaffali erano spessi un paio di centimetri e sostenuti da mensole irregolarmente spaziate, il tutto fatto d’una materia bianca e dura che rifletteva la luce. Sui ripiani c’erano mucchietti di quella che sembrava carta bruciata… carta bruciata e inzuppata d’acqua.
— Polpa — commentò Jerry saggiando uno dei mucchietti con un dito.
— Se fossi te non toccherei niente — lo rimbrottò John.
— Diavolo, tu sei me. Con poche differenze.
— Io però non tocco niente.
— Già. Forse è una buona idea.
Continuarono per tutta la lunghezza delle scaffalature e giunsero a un muro ricoperto di tubi. I tubi giravano sopra i ripiani e si ramificavano in altri più piccoli, che finivano nei mucchietti di sostanza umida e marroncina. — Cos’è questa roba, plastica o che altro? — chiese Jerry, tastando una delle mensole di sostegno.
— Non sembra plastica — disse John. — Ha più l’aria di osso, bianco e liscio. — Si fissarono l’un l’altro.
— Spero che non lo sia. — Jerry si allontanò. Incamminandosi nei lenti turbini di nebbia fino al lato opposto dello scaffale i due trovarono una palla spugnosa e biancastra, simile a un favo di miele, coperta da bubboni aperti in cui luccicava uno sciroppo purpureo. Da alcuni bubboni il liquido colava sul pavimento, e le gocce sfrigolavano e fumavano sulla sua superficie.
John non seppe trattenere una smorfia e mugolò qualcosa sull’impulso di vomitare.
— Certo — disse Jerry, chinandosi a guardare i bubboni. — Ma prima dai un’occhiata qui.
Riluttante John s’inginocchiò e osservò il bubbone che il fratello gli indicava.
— Guarda tutti questi filamenti — borbottò Jerry. — Ci sono diverse bollicine che viaggiano sui fili, sopra quella roba purpurea. Bolle rosse. Sembra sangue, no?
John annuì. Si frugò nella tasca posteriore dei jeans e ne tolse un coltello in dotazione all’esercito svizzero che aveva trovato sotto il sedile della jeep inglese. Con un’unghia estrasse una piccola lente d’ingrandimento dal manico di plastica. — Illumina quest’affare. — Col raggio di luce puntato sul bubbone mise a fuoco la lente sul liquido purpureo e sui filamenti cosparsi di goccioline rosse.
Con un occhio quasi applicato al vetro riuscì a distinguere minuti dettagli. Nulla che potesse riconoscere, tuttavia la superficie dello sciroppo purpureo era composta da miriadi di piramidi. Il materiale bianco assomigliava a schiuma plastica o a sughero.
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