Greg Bear - L'ultima fase

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L'ultima fase: краткое содержание, описание и аннотация

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Vergil Ulam, brillante ricercatore dei Genetron Labs, sta lavorando segretamente ad un esperimento che promette risultati sensazionali, e cioè la produzione di nuclei intelligenti di materia cellulare, capaci di evolversi e di apprendere con straordinaria rapidità. Ma quando Ulam infrange le norme di sicurezza del laboratorio e viene licenziato, si rifiuta di distruggere il frutto delle sue ricerche, come gli è stato ordinato, e decide invece di iniettarsi nel sangue le colonie cellulari, e diventare così egli stesso la cavia di un nuovo straordinario esperimento. Ma sarà il primo di un incredibile processo di mutazione e trasformazione, i cui limiti non sono facilmente immaginabili, perché infatti è subito chiaro che questa forma di intelligenza virale può assorbire e riplasmare qualsiasi materia vivente. Un’epidemia assolutamente inattaccabile, un vero e proprio universo di miliardi di cellule senzienti in frenetica espansione, che lentamente inghiottono l’America del Nord, trasformandola in uno scenario “alieno” che suscita al tempo stesso orrore e meraviglia. Ma si può parlare di catastrofe? O non è piuttosto un nuovo gradino nella scala dell’evoluzione? E che ne sarà dell’umanità, letteralmente trasfigurata da questi microscopici organismi che rappresentano una nuova dimensione di ciò che si può concepire come “vita”?
Nominato per il premio Nebula in 1985.
Nominato per i premi Hugo, Campbell e BSFA in 1976.

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Digrignò i denti. — Molto interessante — commentò. Afferrò l’orlo del bubbone e lo strappò via. Il liquido precipitò ai suoi piedi e la nebbia s’infittì. — Loro non sono qui.

— Perché l’hai fatto? — domandò Jerry.

John colpì con violenza il morbido favo e la sua mano luccicò di liquido purpureo. — Perché loro non sono qui.

— Loro chi?

— Ruth e Loren. Sono proprio andati.

— No, fermo… — cercò di trattenerlo Jerry, ma il fratello ora colpiva con ambo le mani, spaccando i bubboni e facendo schizzare via il contenuto. La nebbia dolciastra che questo produceva a contatto del suolo li avvolgeva entrambi. Jerry lo afferrò per le spalle, tirandolo indietro. — Basta! Basta, John, maledizione!

— Loro li hanno presi! — urlò il fratello. Vacillò, con le lacrime agli occhi, e continuò a prendere a pugni il favo mandando gemiti finché non scivolò. — Non ci sono qui, Jerry!

I due ruzzolarono avvinghiati nella poltiglia che copriva il pavimento, con la lampada che rimbalzava fra le loro gambe. Poi Jerry riuscì a tirare il fratello a sedere e lo tenne fermo. John si passò una mano sugli occhi e scosse il capo, quindi cominciò a singhiozzare, a denti stretti e in silenzio. Jerry recuperò la lampada, la girò attorno nella fitta caligine e gli poggiò una mano su una spalla. — Su, su — mormorò più volte. Grondavano di maleodorante sostanza marroncina. — Su, non fare così.

— È troppo che me lo tengo dentro — disse l’altro dopo un ultimo tremulo sospiro. — Lasciami sfogare, Jerry. È troppo che me lo tengo dentro. Andiamocene via da qui. Tanto non c’è nessuno. Non c’è nessuno qui sotto.

— Già — disse Jerry. — Non qui. Forse da altre parti, ma non qui.

— Io posso sentirli , Jerry.

— Lo so. Ma non qui.

— Allora dove accidenti…

— Ssssh! — Restarono seduti nella poltiglia, con gli orecchi tesi all’impercettibile fruscio della nebbia e delle cortine d’aria. Jerry s’accorse che i suoi occhi erano spalancati come quelli di un gatto nel buio. — Ssssh! C’è qualcosa…

— Oh, Cristo! — ansimò John, sciogliendosi dalle braccia del fratello. Gocciolando brodaglia si tirarono in piedi, lo sguardo fisso lungo il raggio della lampada. Dentro di esso la nebbia si torceva e ondeggiava.

— È un vagabondo — sussurrò John, quando nella caligine apparve una vaga forma.

— È troppo grosso — replicò Jerry.

L’oggetto era una sfoglia piatta larga circa tre metri, con frange che pendevano attorno, e nella debole luminosità appariva di un colore marrone chiaro.

— Non ha gambe — mormorò Jerry spaurito. — Sta fluttuando nell’aria.

John fece un passo avanti. — Maledetti marziani — disse, freddamente. Sollevò un pugno. — Io gli spacco il…

Un istante dopo intorno a loro tutto fu tenebra e oblio.

L’aurora spandeva nel cielo un pallido colore acquamarina. E coperta da uno strato di sostanza bianca e marrone la città aveva l’aspetto di qualcosa che sarebbe stato più facile immaginare sott’acqua, una piatta e bassa sezione del fondo oceanico.

I due erano in piedi nel fossato fuori dai recinti, e fissavano quel panorama un tempo abitato.

— Quasi non ce la faccio a muovermi — si lamentò Jerry.

— Neppure io.

— Credo che quella cosa ci abbia punti.

— Io non ho sentito niente.

John mosse le braccia come per collaudarle. — Penso di averli visti.

— Visti chi?

— Mi sento stordito, Jerry.

— Anch’io.

Prima che trovassero l’energia di mettersi in cammino il sole era già alto nel cielo. Sopra la città, fra i contorni degli edifici, si vedevano aleggiare alcuni emisferi trasparenti dai quali ogni tanto scendevano sottili raggi di luce. — Guarda un po’, sembrano meduse — commentò Jerry mentre scendevano sulla strada verso il furgone.

— Credo d’avere visto Ruth e Loren. Non ne sono sicuro — disse John. Raggiunsero il veicolo lentamente, a passi rigidi, e dopo avere chiuso il portello posteriore sedettero nella cabina. — Filiamocela.

— Dove?

— Li ho visti quando eravamo in quel buco. Ma non erano là. Questo non ha senso.

— No, voglio dire dove andiamo adesso.

— Fuori città. Da qualche altra parte.

— Loro sono dappertutto, John. Lo ha detto la radio.

— Maledetti marziani.

Jerry sospirò. — I marziani ci avrebbero fatti fuori, John.

— Si fottano. Andiamocene da qui.

— Qualunque cosa siano — disse Jerry. — Giurerei che sono usciti da qualche posto qua attorno. — Indicò i terreni circostanti. — Forse proprio da dentro quel recinto.

— Metti in moto — disse John. Il fratello girò la chiavetta, ingranò la marcia e accelerò lungo la strada polverosa. Più avanti sbucarono sulla East Avenue, evitarono per un capello un’auto abbandonata in mezzo all’incrocio e girarono per la South Vasco Road verso l’autostrada. — Quanta benzina abbiamo?

— Ieri ho fatto il pieno prima che quella roba marrone ricoprisse anche il distributore.

— Sai una cosa — borbottò John raccogliendo dal pavimento uno straccio bisunto per asciugarsi le mani. — Credo che non ne capiremo mai abbastanza per sapere cos’è successo. È che non ne abbiamo la minima idea.

— Non abbiamo fantasia, forse. — Jerry strinse le palpebre: un miglio più avanti, sulla strada, c’era qualcuno che agitava vigorosamente le braccia. Vedendolo stupito John seguì il suo sguardo.

— Sembra che non siamo soli — commentò.

Jerry rallentò. — È una donna. — Si fermarono a una trentina di metri dalla sconosciuta, che li attendeva sul bordo della strada. Jerry si sporse dal finestrino per esaminarla meglio. — Non è una donna giovane — borbottò un po’ deluso.

Dimostrava una cinquantina d’anni, ma aveva capelli neri e lunghi e una gonna giovanile, color pesca, che nel correre le svolazzava attorno.

Si avvicinò sulla destra del furgone, sorridente e col fiato mozzo. — Grazie a Dio! — ansimò. — O a chi per lui. Credevo d’essere l’unica superstite della città.

— Evidentemente no — disse Jerry. John aprì lo sportello, si scostò per farle posto e lei salì in cabina; si gettò a sedere con un sospiro e rise ancora. Poi li scrutò entrambi con occhi acuti e vivaci. — Voi due non sarete giovinastri da strada, eh?

— Non credo proprio — replicò Jerry, esplorando i dintorni con un’occhiata. — Lei di dov’è?

— Abitavo qui in città. La mia casa è andata, e tutte le altre sono impacchettate e pronte per essere spedite… chissà dove. A dirla tutta credevo d’essere rimasta sola al mondo.

— Allora non ha ascoltato la radio — disse John.

— No. Non mi piacciono le carabattole elettroniche. Comunque so già cos’è successo.

— Ah, sì? — chiese Jerry, rimettendo in movimento il furgone.

— Proprio così. Mio figlio. È lui il responsabile di tutto questo. Non avevo idea di quale forma avrebbe preso la cosa, ma già allora non dubitavo che sarebbe accaduto. L’ho anche avvertito.

I gemelli si fissarono l’un l’altro. La donna scosse i capelli e se li fermò intorno alla fronte con un nastro.

— Sì, lo so — ridacchiò fra sé. — Matto come un cavallo. Più matto di chiunque altro in città. Ma intanto posso dirvi io dove andare.

— Dove? — domandò Jerry.

— A sud — disse lei con fermezza. — Dove mio figlio lavorava. — Si stirò la gonna sulle ginocchia. — Il mio nome, se vi interessa, è Ulam. April Ulam.

— John — si presentò lui, imbarazzato, stringendole la mano. — Questo è mio fratello Jerry.

— Vedo — annuì April. — Gemelli. Questo ha un significato, suppongo.

Jerry cominciò a ridere, e dopo un po’ gli si riempirono gli occhi di lacrime. Se le asciugò con il dorso della mano, ancora sporco di poltiglia marroncina secca. — A sud, signora?

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