Bernard dubitava che questo gli sarebbe stato concesso. Dalle conversazioni con Paulsen-Fuchs e altri dipendenti della Pharmek aveva avuto l’impressione che intorno a lui si stesse addensando un temporale.
Dopo un breve inventario delle attrezzature cominciò a leggere i manuali acclusi per rinfrescarsi la memoria sulle procedure. Qualche ora più tardi se ne stancò e tirò fuori il suo minicomputer per inserire i primi appunti nella memoria, ben conscio che presto o tardi la Pharmek sarebbe riuscita a metterci il naso; per non parlare degli psicologi e dei medici che il Governo aveva accluso al personale. Tutto ciò che riguardava lui era adesso ritenuto importante.
A mio avviso non esiste nessuna ragione di carattere biologico per cui la Terra intera non avrebbe già dovuto soccombere da tempo. L’agente epidemico è versatile, capace di trasformare ogni creatura vivente. Ma l’Europa ne è rimasta immune (a parte episodi isolati) e dubito che ciò sia stato merito delle misure protettive. Forse la risposta al perché io sono un caso atipico rispetto alle recenti vittime (subisco mutamenti più simili a quelli di Vergil Ulam) spiegherà anche quest’altro mistero. Domani i tecnici mi preleveranno campioni di sangue e tessuti, ma non tutti saranno esaminati all’esterno. Lavorerò io su alcuni di essi, in particolare sul sangue e sulla linfa.
Esitò, con le dita sulla tastiera, e stava per continuare quando Paulsen-Fuchs richiamò la sua attenzione col cicalino della camera d’osservazione.
— Buon pomeriggio — disse Bernard, ruotando sulla poltroncina girevole. Come al solito era nudo. Una telecamera piazzata in una angolo alto nella stanza oltre i cristalli riprendeva di continuo contorni e caratteristiche del suo corpo, mandando l’immagine a un computer che l’analizzava.
— Non è un buon pomeriggio, Michael — disse Paulsen-Fuchs. La sua faccia era ancora più lunga e malinconica del consueto. — Come se non avessimo già abbastanza guai, ora siamo di fronte all’eventualità d’una guerra.
Bernard vide che lo studioso gli mostrava la prima pagina di un quotidiano inglese e s’accostò alla finestra. Il titolo a caratteri cubitali gli produsse un brivido gelido lungo la schiena.
BOMBARDAMENTO ATOMICO RUSSO SU PANAMA
— Quando? — domandò.
— Ieri pomeriggio. I cubani registrano una nube radiattiva che avanza sull’Atlantico. I satelliti militari della NATO hanno confermato le esplosioni avvenute sul canale. Suppongo che i militari l’abbiano saputo subito, grazie ai loro sismografi o in altri modi, ma la stampa lo ha scoperto solo in nottata. I russi hanno usato nove o dieci bombe da un megatone, probabilmente lanciate da un sommergibile. L’intera zona del canale è… — Scosse il capo. — Da Mosca nessuna dichiarazione. Metà della popolazione, qui, si aspetta che la Germania sia invasa entro la settimana. L’altra metà è ubriaca.
— Niente messaggi dal continente? — Era così che si riferivano al Nord America da un paio di giorni: il continente, il centro effettivo di ciò che stava accadendo.
— Niente. — Paulsen-Fuchs sbatté il giornale sul tavolo della camera d’osservazione.
— Voi… dico voi europei, vi aspettate che la Russia invada il Nord America?
— Sì. Da un giorno all’altro. Diritto d’esproprio, o comunque lo definiate voi in inglese. Diritti di recupero. — Ebbe una risatina. — Io non sono un avvocato, ma non c’è dubbio che scoveranno fuori una formula legalmente corretta per giustificarsi a Ginevra. Sempre che nel frattempo non abbiano bombardato anche Ginevra. — Poggiò le mani sul tavolo, ai lati del giornale. — Nessuno è preparato a discutere le contromisure in caso di una loro invasione. Il Governo USA in esilio ha fatto capire che le vostre basi aeree e navali in Europa reagiranno, ma la Russia non li prende sul serio. Un mese fa, quando mi hai telefonato, stavo progettando di prendermi la prima vacanza da sette anni a questa parte. Non so se ci riuscirò più — disse. — Michael, tu hai scombussolato la mia esistenza con qualcosa che può condurmi alla tomba. Scusa se ogni tanto ti sembra che io vada fuori fase.
— Capisco — disse sottovoce Bernard.
— Qui in Germania abbiamo un proverbio — mormorò Paulsen-Fuchs fissandolo. — È la bomba che non senti arrivare quella che ti scoppia sulla testa. Significa qualcosa per te?
Lui annuì.
— Allora mettiti al lavoro, Michael. Dacci dentro prima che la bomba che ci hai messo in mano ci ammazzi tutti.
Dietro il bancone della portineria Suzy trovò una lunga e potente torcia elettrica, simile a un complicato cannocchiale nero e con un raggio che poteva essere dilatato oppure ristretto al massimo. Scese così a esplorare il seminterrato e i livelli sotterranei che collegavano le due torri gemelle. Impiegò un po’ di tempo a provarsi abiti in una boutique, ma alla luce della torcia non riusciva a vedersi bene e presto le venne a noia. Inoltre era piuttosto tesa. Col batticuore s’era costretta a guardare se altri come lei erano entrati nell’edificio, avventurandosi perfino brevemente nella stazione della metropolitana di Courtland Street. Quando fu certa che i sotterranei erano vuoti — a parte i macabri vestiti vuoti stesi al suolo dovunque — tornò nella Sala delle Candele, come l’aveva chiamata, e cominciò a pensare all’ascensione che la aspettava.
Nella torre nord aveva trovato una pianta del grattacielo, e con un dito seguì il percorso dall’atrio ai piani superiori. Scartabellando lo spesso libretto riuscì a stabilire che l’edificio non aveva una scala continua, bensì rampe scaglionate in punti diversi di ogni piano.
Questo avrebbe reso la sua arrampicata ancora più difficile. Individuò sulla carta la porta oltre cui c’era la prima scala e vi si diresse. Era chiusa a chiave. Tornò al banco della portineria, frugò con un piede in un’uniforme che giaceva sul pavimento e mise allo scoperto un grosso anello pieno di chiavi fissato a una catenella. Lo sollevò, insieme alla cintura cui era collegato, e mentre staccava la fibbia dall’uniforme cadde fuori un reggiseno. — Scusatemi — sussurrò, rimettendo gli abiti più o meno nella posizione originaria. — Le sto solo prendendo a prestito. E ve le restituirò quanto prima. — Poi si azzitti con una mano, rabbrividendo, e si morse il pollice fino a lasciarvi un segno rosso. Qui non c’è nessuno , si disse. Nessuno, da nessuna parte. Ci sono solo io adesso.
Le occorsero alcuni minuti per leggere le piccole etichette delle chiavi e trovare quella che apriva la porta del piano terra. Al di là di essa c’era una rampa in metallo, pratica quanto disadorna. Al primo piano terminava, e c’era una porta che dava in un corridoio. La ragazza lo seguì fino all’angolo oltrepassando molti locali adibiti a ufficio, alcuni con porte intestate a ditte diverse e altri semplicemente numerati. Le brevi occhiate che gettò in vari uffici non le dissero molto.
— Va bene — rifletté. — Sarà soltanto una scarpinata. Ho bisogno di cibo e acqua. — Abbassò gli occhi sui suoi stivaletti e sospirò. Doveva accontentarsene, a meno che non avesse deciso di prelevare un paio di scarpe più comode da uno dei…
L’idea non le sorrideva. Tornata nell’atrio trovò una borsa di plastica da massaia e la riempì coi cibi più leggeri che aveva nel carrello. L’acqua era un problema, poiché la teneva in una tanichetta piuttosto scomoda da portarsi appesa alla cintura, ma sospirò fra sé che non aveva altra scelta. E se avesse trovato acqua potabile ai piani superiori — dovevano pur esserci distributori o frigoriferi — avrebbe potuto liberarsi di quel contenitore.
Erano le otto e mezzo del mattino quando cominciò a salire. Ciò che le conveniva, pensò, era superare dieci piani e poi fare una pausa per riposare, magari davanti a una finestra che le consentisse di osservare il panorama esterno da quel livello. Misurando le forze avrebbe potuto arrivare in cima verso sera.
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