— Cosa sta succedendo? — gridò Suzy, con voce rotta.
— Cara, io non lo so, ma non ce la faccio più a parlare. Penso che stia diventando matta. Arrivederci, Suzy. — E poi, incredibilmente, riattaccò. La ragazza cercò di chiamarla ancora ma non ci fu risposta, e infine, alla terza volta, neppure lo squillo sulla linea.
Fu sul punto di aprire l’elenco telefonico e di fare chiamate a caso, ma lasciò perdere quell’idea e tornò in cucina. Doveva sforzarsi di fare qualcosa per loro… tenerli al fresco, oppure al caldo, o trovare nell’armadietto un qualche medicinale che potesse servire.
Sua madre era visibilmente assottigliata. Le creste bianche sembravano essersi gonfiate molto sul volto e sulle braccia. Suzy allungò una mano verso una guancia della donna, esitò, poi si costrinse a toccarla. La pelle era tiepida e asciutta, non febbricitante, abbastanza normale a parte il colore. In quel momento sua madre aprì gli occhi.
— Oh, mamma! — gemette Suzy. — Cosa sta succedendo?
— Be’… — disse la donna. Si passò la lingua sulle labbra. — È abbastanza bello in questo momento. Tu stai bene, vero? Ah, Suzy! — Poi chiuse gli occhi e non disse altro. La ragazza si volse a Howard, che sedeva appoggiato al tavolo. Gli sfiorò un braccio, e sentendo che la pelle sembrava sgonfiarsi come un sacco vuoto fece un balzo indietro. Solo allora notò l’intreccio di tubicini simili a radici che gli sbucavano da sotto i pantaloni e andavano a sparire dentro una fessura, fra il pavimento e il muro.
Altre di quelle strane radici emergevano dal corpo color pastafrolla di Kenneth, e giravano dietro l’angolo della dispensa. E seminascosto dalla schiena di sua madre c’era un singolo spesso tubo di carne pallida, che uscendo da sotto la gonna serpeggiava fin dentro l’armadietto accanto all’acquaio. In un istante di follia Suzy pensò che quello era cinema dell’orrore, un trucco, e che i suoi familiari stavano girando un film senza averle detto niente. Si accostò a sbirciare dietro al corpo di sua madre. Lei non era un’esperta, però quel tubo di carne non era un trucco. Poteva vedere il sangue che pulsava dentro di esso.
Lentamente Suzy risalì le scale e tornò in camera sua. Sedette sul letto, passandosi le dita fra i lunghi capelli biondi e del tutto inconscia di quel che faceva, infine si distese e fissò la vecchia tappezzeria argentea del soffitto. — Gesù, ti prego, vieni ad aiutarmi perché ho bisogno di te adesso — mormorò. — Gesù, ti prego, vieni ad aiutarmi perché ho bisogno di te adesso.
La ragazza continuò a sussurrare suppliche per ore e ore, finché nel pomeriggio la sete la costrinse ad andare a bere nel bagno. E anche dopo aver inghiottito qualche sorso ripeté meccanicamente la sua preghiera, finché l’insensata monotonia della cosa non la ridusse al silenzio. Si appoggiò alla ringhiera delle scale, sempre vestita con l’abito azzurro che aveva messo quel mattino, e cominciò a pensare a quel che doveva fare. Lei non era ammalata — non ancora — e certamente non era morta.
Dunque doveva esserci qualcosa che potesse fare, qualche posto dove andare.
E tuttavia, in un angolo della mente, ancora sperava che forse nell’aprire una porta o nel girare un angolo di strada avrebbe trovato il varco attraverso il quale tornare nel suo mondo normale. Non credeva che ciò fosse probable, ma per quella vaga speranza valeva la pena di muoversi.
C’erano da prendere alcune difficili decisioni. A cosa le servivano la sua educazione e tutti i suoi studi se non riusciva a pensare a se stessa ed a prendere decisioni difficili? C’era una cosa che non voleva fare, ed era di andare in cucina, però il cibo era in cucina. Avrebbe potuto tentar di penetrare in altre case, o nel negozio di alimentari in fondo al caseggiato, ma sospettava che avrebbe trovato altri corpi là.
Se non altro questi corpi — vivi o morti — erano i i suoi familiari. Entrò in cucina tenendo o sguardo sul soffitto. Poco a poco però, mentre passava da un armadietto all’altro, i suoi occhi si abbassarono. I corpi erano diminuiti di volume visibilmente; Kenneth sembrava poco più che una chiazza coperta da filamenti negli abiti afflosciati. Le radici color carne serpeggiavano sul pavimento, si arrampicavano su per l’acquaio e sparivano nel foro stappato dello scarico. Rigida, aspettandosi che da un momento all’altro qualcosa si protendesse ad afferrarla — o che sua madre o Howard si alzassero come orribili zombies — strinse i denti finché si sentì dolere la mandibola, ma nessuno di loro si mosse. Non avevano più neppure l’aspetto di qualcosa capace di muoversi.
Uscì da lì con una cassetta piena di roba in scatola: il cibo che pensava le sarebbe bastato per qualche giorno… e l’apriscatole, che s’era quasi dimeticato.
Era il crepuscolo quando le venne l’idea di accendere la radio. Non avevano più avuto un apparecchio televisivo da dopo che l’ultimo s’era guastato oltre ogni possibilità di riparazione; la sua carcassa ora raccoglieva polvere nel sottoscala fra pile di vecchie riviste. Accese l’apparecchio, che sua madre teneva sempre con le pile cariche, e metodicamente esplorò le frequenze. Da bambina aveva manovarato con abilità la sua piccola radio, ma ora tutte quelle cifre non le dicevano niente.
Sulle bande AM e FM non stava trasmettendo neppure una stazione. Passò a esaminare le onde corte: lì alcune si ricevevano con chiarezza, però nessuna era in lingua inglese.
La stanza s’era fatta sempre più buia. Un estremo dubbio bloccò il suo desiderio di accendere la luce: se tutti erano ammalati ci sarebbero state ancora luci?
Quando la stanza fu immersa dalle d’ombre e non ci fu modo di evitare il dilemma — sedere nel buio o scoprire se doveva sedere nel buio — andò alla grossa lampada a stelo accanto al divano e girò l’interruttore.
La luce si diffuse, intensa e ferma.
Questo squarciò la diga che aveva alzato davanti alle sue emozioni, e cominciò a piangere. Stesa sul divano e con le ginocchia strette al petto si rotolò da una parte e dall’altra, gemendo come una demente, il volto bagnato di lacrime e le mani nei capelli. Con la lampada che spandeva luce dorata e impersonale sul suo pianto singhiozzò finché la gola cominciò a dolerle e gli occhi le si gonfiarono al punto che non riusciva più a tenerli aperti.
Senza mangiare nulla risalì al piano di sopra, accese tutte le luci — ogni lampada in più era un’amica — e crollò sul letto. Ma non poté dormire, perché con l’immaginazione continuava a udire orribili passi su per le scale e cose che strisciavano in corridoio fino alla sua porta.
Quella notte durò un’eternità, e nel lento trascorrere delle ore Suzy diventò un po’ più matura, o soltanto un po’ pazza, non seppe stabilire quale delle due cose. Alcuni fatti smisero di pesarle addosso. Seppe che aveva la forza di volontà, ad esempio, di lasciarsi il passato alle spalle per cercare un nuovo modo di vivere. Si aggrappò a quella risoluzione nella speranza che qualunque cosa fosse accaduta questo non impedisse alle luci di brillare ogni notte.
L’alba la trovò in uno stato di esaurimento psichico: sfinita, affamata ma nauseata all’idea di mangiare, i muscoli tesi e contratti dalla paura e dalla mancanza di sonno. Bevve ancora dal rubinetto del bagno… e d’improvviso ricordò le radici carnose che s’immergevano nell’acquaio. Con un sussulto si ritrasse e sedette sul bordo della vasca, restando a fissare insospettita il getto d’acqua limpida. Infine la sete la convinse a correre il rischio, ma si ripromise di aggiungere alle provviste qualche bottiglia d’acqua.
In soggiorno fece colazione con carne in scatola fredda e piselli, e scoprì d’essere abbastanza affamata da vuotare inoltre un vasetto di marmellata di prugne. Lasciò le scatolette in fila sul malconcio tavolino da caffè. Poi ripulì il barattolo di marmellata; niente le era mai parso così gustoso.
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