Greg Bear - L'ultima fase

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L'ultima fase: краткое содержание, описание и аннотация

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Vergil Ulam, brillante ricercatore dei Genetron Labs, sta lavorando segretamente ad un esperimento che promette risultati sensazionali, e cioè la produzione di nuclei intelligenti di materia cellulare, capaci di evolversi e di apprendere con straordinaria rapidità. Ma quando Ulam infrange le norme di sicurezza del laboratorio e viene licenziato, si rifiuta di distruggere il frutto delle sue ricerche, come gli è stato ordinato, e decide invece di iniettarsi nel sangue le colonie cellulari, e diventare così egli stesso la cavia di un nuovo straordinario esperimento. Ma sarà il primo di un incredibile processo di mutazione e trasformazione, i cui limiti non sono facilmente immaginabili, perché infatti è subito chiaro che questa forma di intelligenza virale può assorbire e riplasmare qualsiasi materia vivente. Un’epidemia assolutamente inattaccabile, un vero e proprio universo di miliardi di cellule senzienti in frenetica espansione, che lentamente inghiottono l’America del Nord, trasformandola in uno scenario “alieno” che suscita al tempo stesso orrore e meraviglia. Ma si può parlare di catastrofe? O non è piuttosto un nuovo gradino nella scala dell’evoluzione? E che ne sarà dell’umanità, letteralmente trasfigurata da questi microscopici organismi che rappresentano una nuova dimensione di ciò che si può concepire come “vita”?
Nominato per il premio Nebula in 1985.
Nominato per i premi Hugo, Campbell e BSFA in 1976.

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Non teneva orologi nella sua camera, ma fuori dalla finestra il sole era abbastanza alto da far pensare che fossero almeno le dieci. Le porte delle altre stanze da letto erano chiuse. — Mamma? — Bussò piano alla camera di sua madre. Non ci fu risposta.

Sicuramente uno dei suoi fratelli era già alzato. — Kenneth? Howard? — A metà del corridoio tornò indietro, facendo cigolare alcune assicelle del pavimento di legno. Girò la maniglia della prima porta e aprì. — Mamma? — Il letto non era stato ancora rifatto, e le coperte giacevano per metà in terra. Dovevano essere tutti al piano di sotto. Andò in bagno a lavarsi la faccia, ispezionò la pelle delle guance in cerca di eventuali punti neri e fu soddisfatta di non trovarne neppure uno, quindi scese le scale e attraversò l’andito. Non si sentiva volare una mosca.

— Ehi! — chiamò dal soggiorno, confusa e di malumore. — Nessuno mi ha svegliato. Farò tardi al lavoro! — Da tre mesi era stata assunta come cameriera in un ristorante delle vicinanze. Quel lavoro le piaceva (era molto più interessante e reale che sgobbare nella cucina economica dell’Esercito della Salvezza) e le permetteva di dare un contributo in casa. Sua madre aveva perso l’impiego tre mesi prima e vivevano con gli assegni saltuari del padre di Suzy, oltreché coi loro risparmi in rapida diminuzione. Gettò uno sguardo all’orologio navale Benrus sul tavolo e scosse il capo. Le dieci e mezzo; era sul serio in ritardo. Ma questo non la preoccupava come il pensiero di dove potessero esser andati gli altri. Bisticciavano spesso, certo, però erano una famiglia molto unita (salvo il padre, di cui lei difficilmente sentiva la mancanza. Non molto, comunque) e nessuno sarebbe uscito senza dirle niente, tantomeno senza svegliarla.

Spinse la porta a molla della cucina e dopo due passi si fermò di colpo. Dapprima i suoi occhi non registrarono ciò che si trovò davanti: tre forme stranamente scomposte, tre corpi, uno contenuto in un vestito da donna e steso sul pavimento, contro la base del lavandino, un altro con i soli jeans addosso e seduto al tavolo di cucina, e il terzo mezzo dentro e mezzo fuori dalla dispensa. Nessun movimento, nessun rumore, soltanto tre corpi che lei non riuscì affatto a riconoscere.

Per un poco la ragazza non ebbe alcuna reazione. Riusciva solo a pensare che aprire la porta in quel momento doveva essere stato un errore: se l’avesse aperta un secondo prima, o un secondo dopo, tutto quanto sarebbe stato normale. In qualche modo avrebbe allora spalancato una porta diversa — la porta del suo mondo — e la sola cosa fuori posto sarebbe stato il fatto che nessuno l’aveva svegliata per tempo. Invece lei non era stata attenta, e questo era proprio spiacevole: aveva aperto la porta nel momento sbagliato, e adesso era troppo tardi per richiuderla.

Il corpo accanto all’acquaio indossava un vestito di sua madre. La faccia, le braccia, le gambe e le mani erano marcate da rigonfie strisce bianche. Suzy fece un altro breve passo avanti, col fiato mozzo e accelerato. La porta le scivolò via dalle dita e si richiuse. Indietreggiò e fece un passo di lato, come se il suo corpo scattasse in una danza di terrore e indecisione. Avrebbe dovuto chiamare la polizia, naturalmente. Forse un’ambulanza. Ma prima doveva scoprire cos’era successo, e tutti i suoi istinti la spingevano a correre via da quella cucina, a fuggire in strada.

Howard aveva vent’anni, e d’abitudine in casa girava con i soli jeans, senza camicia. Gli piaceva andare a petto nudo da quando aveva messo su un robusta massa muscolare. Ora il suo torace era di un colore bruno rossastro, come quello di un indiano, strisciato da protuberanze simili a quelle di un’asse per lavare vecchio stile. Aveva gli occhi chiusi, la bocca chiusa, e i lineamenti distesi. Stava ancora respirando.

Kenneth — doveva essere Kenneth — sembrava più un mucchio di frittelle avvolto in un vestito che il suo fratello più anziano.

Qualunque cosa fosse accaduta era totalmente incomprensibile. Si chiese se non si trattasse di una cosa che tutti gli altri già sapevano, ma di cui avessero dimenticato d’informarla.

No, questo non aveva senso. A volte la gente era crudele con lei, ma sua madre e i suoi fratelli non erano mai crudeli. La cosa migliore era uscire di lì e chiamare la polizia, o qualcuno. Qualcuno che sapesse ciò che bisognava fare.

Nell’ingresso scorse la lista di numeri appesa sopra il vecchio telefono nero, quindi cercò di comporre quello del soccorso d’emergenza. Le sue dita tremanti incespicavano nei fori del disco. Aveva gli occhi pieni di lacrime quando finalmente riuscì a fare le tre cifre.

Per alcuni minuti l’auricolare le trasmise soltanto il suo monotono squillo. Poi una registrazione le rispose: — Le nostre linee sono sovraccariche. È pregato di non riappendere o perderà la sua priorità. — Tornarono a farsi udire gli squilli. Dopo altri cinque minuti, con un singhiozzo, riappese e compose il numero della centrale telefonica. Neppure da lì ebbe risposta. D’un tratto ricordò quel che aveva detto sua madre la sera prima circa una qualche specie di epidemia in California. Ne aveva parlato la radio. Gente che si ammalava, e l’esercito chiamato a prestare soccorso. Soltanto allora, scossa da quel pensiero, Suzy McKenzie corse fuori dalla porta d’ingresso, si fermò sugli scalini e chiamò aiuto con voce rotta.

La strada era deserta. Su entrambi i lati erano parcheggiate file di auto… incomprensibilmente, perché la sosta era proibita dalle otto alle diciotto di tutti i giorni salvo il giovedì e il venerdì, e quello era un giovedì, e la polizia non scherzava. Non c’era un’auto in movimento. E non si vedeva un’anima né sui marciapiedi, né in macchina, né alle finestre delle case. La ragazza cominciò a correre in una direzione a caso, piangendo e a tratti gridando in tono supplichevole, poi con rabbia, quindi con voce stridula per il terrore, infine di nuovo invocando aiuto.

Smise di gridare quando vide un postino steso al suolo davanti a un elegante edificio d’appartamenti, fra le cancellate che portavano all’ingresso. Giaceva sulla schiena, a occhi chiusi, e sembrava ridotto proprio come Howard e sua madre. Per Suzy i postini erano sacri e degni di fiducia come i poliziotti. Si passò le mani sulla faccia come per toglierne la maschera di terrore e chiuse gli occhi, cercando di pensare. — Quell’epidemia si è sparsa dappertutto — si disse. — Qualcuno dovrà pur sapere cosa bisogna fare.

Tornò a casa sua e prese di nuovo il telefono. Poi cominciò a chiamare tutti i numeri che conosceva. Alcuni squillarono a vuoto, altri risposero solo col silenzio o con strani rumori da computer. Rifece il numero del suo ragazzo, Cary Smyslov, e ascoltò l’apparecchio suonare otto, nove, dieci volte prima di riappendere. Fece una pausa, rifletté qualche istante, quindi chiamò sua zia Dawn, nel Vermont.

Stavolta ebbe risposta al primo squillo. — Pronto? — La voce era tremula e sfinita, ma apparteneva senza dubbio a sua zia.

— Zia Dawn, qui è Suzy, da Brooklyn. Ci sta succedendo una cosa terribile, noi…

— Suzy? — balbettò la donna, come incapace di collegare quel nome.

— Sì, lo sai, Suzy. Suzy McKenzie.

— Cara, adesso non mi sento troppo bene. — La zia Dawn non era una vecchia decrepita. Aveva soltanto trentun’anni. Ma la sua voce adesso ne dimostrava il doppio.

— La mamma è malata, forse è morta, non lo so, e Kenneth e Howard, e qui non c’è più nessuno, oppure sono tutti ammalati, e io non so cosa…

— Anch’io mi sento molto male — disse zia Dawn. — Ho preso quei bubboni. Tuo zio non è tornato a casa, o forse è in garage. Comunque non lo vedo da… — Ebbe un ansito. — Da ieri sera. Parlava da solo come un matto. E non è ancora rientrato. Cara…

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