Greg Bear - L'ultima fase

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L'ultima fase: краткое содержание, описание и аннотация

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Vergil Ulam, brillante ricercatore dei Genetron Labs, sta lavorando segretamente ad un esperimento che promette risultati sensazionali, e cioè la produzione di nuclei intelligenti di materia cellulare, capaci di evolversi e di apprendere con straordinaria rapidità. Ma quando Ulam infrange le norme di sicurezza del laboratorio e viene licenziato, si rifiuta di distruggere il frutto delle sue ricerche, come gli è stato ordinato, e decide invece di iniettarsi nel sangue le colonie cellulari, e diventare così egli stesso la cavia di un nuovo straordinario esperimento. Ma sarà il primo di un incredibile processo di mutazione e trasformazione, i cui limiti non sono facilmente immaginabili, perché infatti è subito chiaro che questa forma di intelligenza virale può assorbire e riplasmare qualsiasi materia vivente. Un’epidemia assolutamente inattaccabile, un vero e proprio universo di miliardi di cellule senzienti in frenetica espansione, che lentamente inghiottono l’America del Nord, trasformandola in uno scenario “alieno” che suscita al tempo stesso orrore e meraviglia. Ma si può parlare di catastrofe? O non è piuttosto un nuovo gradino nella scala dell’evoluzione? E che ne sarà dell’umanità, letteralmente trasfigurata da questi microscopici organismi che rappresentano una nuova dimensione di ciò che si può concepire come “vita”?
Nominato per il premio Nebula in 1985.
Nominato per i premi Hugo, Campbell e BSFA in 1976.

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Molto presto lui sarebbe morto. Offrire se stesso alla Pharmek, al mondo che ancora non era stato contaminato, era probabilmente una specie di nobile autosacrificio. Ma questo non bastava certo a compensare ciò che lui aveva lasciato accadere.

Come avrebbe potuto immaginarselo?

— Milligan sapeva — si disse a denti stretti. — Dannazione a tutti loro! — Dannazione a Vergil I. Ulam. Ma lui non era della stessa razza di Vergil, forse? No, questo rifiutava di ammetterlo. Vergil era stato brillante (rivide il corpo arrossato e coperto di escrescenze nella vasca da bagno. Era stato, era stato ) ma irresponsabile, cieco alle precauzioni che lui invece avrebbe preso quasi d’istinto. Tuttavia, se Vergil avesse preso quelle precauzioni non avrebbe mai terminato il suo lavoro.

Nessuno glielo avrebbe permesso.

E Michael Bernard sapeva fin troppo bene quanto fosse avvilente vedersi bloccare da altri mentre si stava seguendo una promettente linea di ricerca. Lui avrebbe potuto curare migliaia di vecchi affetti dal Morbo di Parkinson… se solo gli fosse stato concesso di usare parti del tessuto cerebrale di embrioni abortiti. Invece, nel loro fervore moralistico, gli individui — con e senza faccia — da cui era stato fermato avevano contribuito a lasciare migliaia di persone nella sofferenza più umiliante. Quante volte s’era augurato che la giovane Mary Shelley non avesse mai scritto quel romanzo, o almeno non avesse scelto un nome tedesco per il suo scienziato. Tutte le paure nate agli inizi dell’età della scienza vivevano ancora nella mentalità della gente…

Sì, sì, e lui stesso non aveva appena maledetto Ulam per la sua genialità? Non aveva fatto inconsciamente quel paragone?

Il mostro di Frankenstein. Inevitabile. Noiosamente ovvio.

La gente temeva tutto ciò che era nuovo, ogni cambiamento.

E ora anche lui aveva paura, benché ammettere quella paura non fosse facile. Meglio essere razionale e presentarsi come un soggetto di studio, un involontario sacrificio umano come il Dr. Louis Slotin, a Los Alamos nel 1946. Vittime di un incidente, Slotin e altri sette erano stati esposti a una forte dose di radizioni ionizzanti. Slotin aveva ordinato agli altri sette di non muoversi. Poi aveva tracciato circoli intorno ai suoi piedi e ai loro, per dare agli scienziati dati probanti sulla distanza dalla sorgente e sull’intensità dell’esposizione su cui basare i loro studi. Slotin era morto dieci giorni dopo. Un altro era morto vent’anni più tardi per complicazioni attribuite alle radizioni. Altri due erano morti di una forma acuta di leucemia.

Cavie umane. Nobile, stoico Slotin.

Ma non era accaduto loro di desiderare, in quei terribili momenti, che nessuno avesse mai scoperto come scindere l’atomo?

La Pharmek aveva affittato un piccolo aeroporto a due chilometri dai propri impianti di ricerca, nella campagna fuori Wiesbaden, per ricevere scienziati e uomini d’affari, materiali di ogni genere, sostanze chimiche e campioni spediti da squadre di ricerca di tutto il pianeta. Bernard si mise a volare in cerchio sopra i boschi e i campi arati, a tremila metri di quota, proprio mentre il cielo d’oriente si schiariva nell’alba.

Collegò la sua radio secondaria al sistema automatico ILS della Pharmek, e facendo scattare due volte il microfono ottenne l’accensione delle luci del campo. La pista apparve sotto di lui nel grigiore antelucano, con una freccia luminosa laterale che indicava la direzione del vento.

Bernard planò in direzione della doppia fila di luci e sentì le ruote poggiarsi con un lieve tonfo sulla pista di cemento: un atterraggio perfetto, l’ultimo che lo snello jet dirigenziale avrebbe compiuto.

Dal portello laterale della carlinga poté vedere un grosso furgone bianco e alcune persone con indosso tute a protezione integrale, in attesa che lui scendesse. Gli stavano puntando contro un grosso riflettore mobile. Aprì un finestrino e con una mano fece loro cenno di non muoversi da dove stavano. Poi tornò alla radio e disse: — Deponete una tuta isolante a cento metri di distanza dal jet. Il furgone dovrà attendermi altri cento metri ancora più indietro.

Un uomo in piedi sul predellino del furgone ascoltò il collega alla guida e segnalò «ricevuto» alzando il pollice. La tuta in plastica venne appoggiata sulla pista, quindi il furgone e gli uomini indietreggiarono alla distanza richiesta.

Bernard spense i motori e le apparecchiature di bordo, lasciando accese solo le luci interne e il sistema per lo scarico d’emergenza del carburante. Con la valigetta Jeppesen sotto un braccio attraversò la cabina passeggeri e tolse una latta pressurizzata di disinfettante dallo scomparto dei bagagli. Con un profondo respiro si allacciò sulla faccia una maschera-filtro di gomma, e lesse le istruzioni stampate sulla latta. Era fornita di un tubo flessibile, terminante in un beccuccio nero a pistola. Sul grilletto c’era un sigillo che lui strappò.

Con la latta in una mano e l’estremità del tubo nell’altra Bernard tornò nella cabina di pilotaggio e cosparse di spray i comandi, i sedili, il soffitto e il pavimento, finché tutto grondò di fluido verdastro e schiumoso. Poi tornò nello scomparto dei passeggeri e spruzzò ogni cosa che poteva avere toccato, finché la pressione all’interno della latta fu a zero. La depose su uno dei sedili di pelle.

Guardandosi attorno si tastò con una mano la tasca dei pantaloni per accertarsi che la pistola da segnalazione fosse ben infilata, insieme alle sei cartucce di riserva, quindi scese dalla scaletta e andò a deporre la valigetta Jeppesen sulla pista, a una decina di metri dal rosso muso del piccolo jet. Ne tolse gli utensili.

Passo per passo sabotò il velivolo, dapprima svuotando del contenuto i sistemi idraulici, poi spaccando i tubi dell’aria compressa e dei freni. Con un accettino sfondò i vetri della cabina di pilotaggio e gli oblò laterali, arrampicandosi su un’ala per raggiungerli.

Risalì la scaletta, tornò in cabina e si appoggiò a uno dei sedili grondanti di schiuma verde per girare l’interruttore dello scarico d’emergenza del carburante. Un coperchietto schizzò via, scoprendo un pulsante rosso; lo premette e le valvole si aprirono. Bernard uscì in fretta dal velivolo, chiuse la valigetta e corse fin dove la tuta isolante grigia e arancione giaceva sulla pista.

I tecnici e il personale della Pharmek non avevano neppure accennato a intervenire. Bernard si tolse di tasca la pistola e i razzi di riserva, si spogliò completamente nudo e indossò l’indumento pressurizzato. Arrotolando gli indumenti li portò fino alla pozza di benzina sotto il Falcon 10. Tornò indietro, aprì la valigetta, ne tolse soltanto il suo passaporto e lo mise in una scatoletta di plastica. Poi raccolse la pistola.

La cartuccia scivolò liscia nella canna. Prese accuratamente la mira — sperando che la traiettoria non fosse troppo curva — e sparò il razzo contro il jet che era stato il suo orgoglio e la sua gioia.

Il carburante prese fuoco con un’alta fiammata arancione che in pochi secondi si striò di lingue nere, mentre bruciavano plastiche e vernici. Una silhouette scura sullo sfondo di quell’inferno di fiamme; Bernard raccolse la valigetta e s’incamminò verso il furgone.

Era poco probabile che fra i presenti ci fosse un funzionario della dogana, ma per rispettare le formalità legali lui sollevò la scatoletta trasparente col passaporto e la indicò con un dito. Un uomo in tuta isolante simile alla sua si fece avanti e lo prese.

— Niente da dichiarare — disse Bernard. L’uomo sollevò una mano davanti al copricapo integrale in rigida plastica nell’imitazione di un saluto militare, quindi indietreggiò. — Disinfettatemi, prego.

Girò su se stesso sotto il getto di un liquido sterilizzante rosato, sollevando le braccia e uno alla volta anche i piedi. Mentre saliva dalla scaletta nel furgone isolato sentì i filtri dell’aria mettersi in moto e vide accendersi le luci antibatteriche a raggi ultravioletti. Il portello fu chiuso dietro di lui, con un lieve fruscio di guanizioni a tenuta che venivano compresse.

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