Greg Bear - L'ultima fase

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L'ultima fase: краткое содержание, описание и аннотация

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Vergil Ulam, brillante ricercatore dei Genetron Labs, sta lavorando segretamente ad un esperimento che promette risultati sensazionali, e cioè la produzione di nuclei intelligenti di materia cellulare, capaci di evolversi e di apprendere con straordinaria rapidità. Ma quando Ulam infrange le norme di sicurezza del laboratorio e viene licenziato, si rifiuta di distruggere il frutto delle sue ricerche, come gli è stato ordinato, e decide invece di iniettarsi nel sangue le colonie cellulari, e diventare così egli stesso la cavia di un nuovo straordinario esperimento. Ma sarà il primo di un incredibile processo di mutazione e trasformazione, i cui limiti non sono facilmente immaginabili, perché infatti è subito chiaro che questa forma di intelligenza virale può assorbire e riplasmare qualsiasi materia vivente. Un’epidemia assolutamente inattaccabile, un vero e proprio universo di miliardi di cellule senzienti in frenetica espansione, che lentamente inghiottono l’America del Nord, trasformandola in uno scenario “alieno” che suscita al tempo stesso orrore e meraviglia. Ma si può parlare di catastrofe? O non è piuttosto un nuovo gradino nella scala dell’evoluzione? E che ne sarà dell’umanità, letteralmente trasfigurata da questi microscopici organismi che rappresentano una nuova dimensione di ciò che si può concepire come “vita”?
Nominato per il premio Nebula in 1985.
Nominato per i premi Hugo, Campbell e BSFA in 1976.

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— Potrei essere l’ultima donna della Terra — meditò. — Dovrò essere pratica.

L’ultima cosa che sistemò nel carrello da supermarket, in attesa sul marciapiede davanti agli scalini, fu la radio. L’aveva accesa soltanto pochi minuti ogni sera, e da Mithridates’ s’era provvista d’una scatola di batterie. Le sarebbero state utili per qualche tempo.

Dalla radio aveva appreso che la gente era molto, molto preoccupata, non solo per ciò che era accaduto a Brooklyn ma in tutti gli Stati Uniti, e anche al di là dei confini, in Messico e in Canada. Una nuova stazione inglese, sulle onde corte, aveva parlato del silenzio radio, dell’epidemia, di viaggiatori messi in quarantena, e di sommergibili e aerei che sorvegliavano le coste. Uno speaker inglese dalla voce educata aveva detto che nessun velivolo era penetrato nello spazio aereo del Nord America, e che da voci raccolte presso chi usava i satelliti-spia risultava che la nazione era paralizzata, forse morta.

Non io, pensò Sizy. Paralizzata significava incapace di muoversi. — Io mi muovo. Mandate i vostri sommergibili e aeroplani a guardarmi. Io mi muoverò, dovunque sia il posto in cui andrò.

Era tardo pomeriggio quando Suzy spinse il carrello lungo Adams Street. La nebbia oscurava i lontani grattacieli di Manhattan, consentendo solo alla pallida silhouette del World Trade Center di emergere dalla grigia e biancastra opacità. Non aveva mai visto una nebbia così fitta sul fiume.

Voltandosi a guardare indietro vide stralci e vele di sostanza marrone aleggiare nel vento sopra Cadman Plaza. La Williamsburgh Saving Bank era tappezzata in tutti i suoi duecento metri d’altezza da un rivestimento marrone scuro, come un grattacielo impacchettato e pronto a essere spedito per posta. Girò per la Tillary, e stava percorrendo la Flatbush diretta al ponte quando dovette riflettere a quanto assomigliava a un’accattona.

L’ipotesi di poter diventare un’accattona l’aveva sempre spaventata. Sapeva che talvolta la gente che aveva dei problemi come il suo non riusciva a trovare un’abitazione, e si rassegnava a vivere nelle strade.

Adesso questo non le faceva affatto paura. Le cose erano molto diverse. Il pensiero stuzzicò anzi il suo senso dell’umorismo. Un’accattona in una città ricoperta da uno strato di sostanza marrone. La situazione aveva perfino un lato divertente, ma era troppo stanca per riderci sopra.

Qualsiasi genere di compagnia sarebbe stata la benvenuta: accattoni, gatti, uccelli. Ma non si muoveva nulla, salvo il lenzuolo marroncino.

Spinse il carrello lungo la Flatbush, si fermò un poco a riposare su una panchina alla fermata dei mezzi pubblici, quindi proseguì. Aveva fatto bene a portare con sé la blusa di Kenneth: se la mise sulle spalle accorgendosi che l’aria della sera era piuttosto fredda. — Potrei canticchiare per riscaldarmi — disse a se stessa. Aveva sempre la testa piena di ritornelli, rock e rhythm-and-blues, ma in quel momento non riusciva ad azzeccare le note. Mentre sollevava il carrello sul marciapiede del ponte, una ruota alla volta, finalmente le note giuste le vennero in mente e cominciò a cantare Michelle , dei Beatles, che risaliva ai tempi in cui sua madre era ragazza. Ma Michelle, ma belle erano le uniche parole che ricordava, cosicché continuò a canticchiare solo quelle intanto che ansando spingeva avanti il carrello carico.

La nebbia avviluppava l’East River, addensandosi intorno ai piloni. La lunga campata la sovrastava, come una strada distesa sulle nuvole. Infreddolita e solitaria Suzy proseguì la marcia, accompagnata soltanto dal fruscio del vento e da uno strano mormorio che dopo un poco identificò come il vibrare dei possenti cavi d’acciaio.

Senza alcun traffico, dal ponte poteva sentire piccoli rumori di ogni genere che prima non le erano mai giunti agli orecchi: i gemiti del metallo, bassi e soffocati ma impressionanti, il canto lontano del fiume, il profondo silenzio al di là di esso. Nessuna voce umana, nessun rumore umano. Avrebbe potuto trovarsi in mezzo a un deserto.

— Come un pioniere — ricordò a se stessa. L’orizzonte era già buio ovunque, salvo che dalla parte del New Jersey dove a ricordo del sole restava una striscia di luce verde-arancio. La strada divenne una trincea d’oscurità. Fermò il carrello e si accovacciò sul bordo del marciapiede stringendosi nei vestiti, poi indossò i calzini di lana e gli stivali. Per alcune ore restò seduta in uno stato di smarrimento accanto alle sue cose, con la punta di un piede sotto una ruota per impedire al carrello di rotolare via.

Sotto il ponte il rumore del fiume mutò. Sentì i capelli che le si rizzavano sulla nuca, benché non vedesse nessun vero motivo d’avere paura. Tuttavia poteva avvertire una presenza, l’impressione che qualcosa le passasse vicino. In alto le stelle splendevano nitide e brillanti, e la Via Lattea tracciava un pulviscolo di luce sul buio e sulla nebbia della città.

Si alzò e si stiracchiò, sbadigliando, spaurita dalla sua solitudine eppure sentendosi stranamente euforica. Scavalcò la ringhiera, attraversò la corsia esterna del ponte e fece qualche passo proprio sull’orlo. Con le mani intorpidite dal freddo malgrado i guanti si appoggiò alla balaustra e spinse lo sguardo sull’East River, verso South Street, poi si volse a osservare la chiazza più chiara dell’approdo dei ferry-boat.

Mancava ancora molto all’alba, e tuttavia le acque del fiume erano colme di una misteriosa luminosità, che lungo le rive si addensava in linee di luci soffuse verdi e azzurrine. La corrente era piena di occhi, di ruote, di dischi e cerchi che giravano lenti bruciando in miriadi di fuochi interni, stagliandosi contro profondità in cui aleggiava un’immobile luce color cobalto. Le parve di osservare dall’alto milioni di città che rotolavano e passavano via in una notte bluastra e ultraterrena.

Il fiume era vivo, da una riva all’altra e fin giù a Governors Island, dove la Upper Bay sembrava una Via Lattea rovesciata. Il fiume baluginava, si muoveva, e ogni particella di esso aveva uno scopo; Suzy questo lo sapeva.

E sapeva di essere ora appena una formica nella strada di una grande città. Lei era una creatura inconsapevole, limitata, effimera e fragile. Il fiume era più complesso e affascinante delle luci al neon di Manhattan il sabato sera.

— Non credo che capirò mai questo — mormorò. Scosse il capo e alzò lo sguardo verso i grattacieli.

Uno di essi non era completamente all’oscuro. All’ultimo piano della torre meridionale del World Trade Center brillava una luce verdolina. — Ehi! — disse, più meravigliata da quello che da tutto il resto.

Si allontanò dalla balaustra e tornò accanto al carrello sul marciapiede interno. Le luci soffuse del fiume erano molto belle, pensò, ma la cosa più importante era di stare al calduccio fra i suoi abiti in attesa che l’alba le consentisse di vederci abbastanza da riprendere il cammino. Si sedette vicino al carrello.

— Andrò a vedere cosa c’è in quel palazzo — disse. — Forse un altro come me, qualcuno che almeno s’intende di elettricità. Domattina andrò a vedere.

Mentre dormicchiava, a tratti svegliandosi tremante per coprirsi meglio, con la fantasia continuò a sentire qualcosa al di là dell’udito: il rumore del cambiamento, l’epidemia, il fiume e le ruote fluttuanti in esso come un immenso coro parrocchiale i cui membri spalancavano migliaia di bocche, cantando il silenzio.

XXIII

Con un lontano strofinio metallico Paulsen-Fuchs avvicinò una sedia al vetro della camera di osservazione e sedette. Disteso sul letto Bernard lo guardò con occhi insonnoliti. — A quest’ora di mattina? — borbottò.

— È pomeriggio. Hai perso la cognizione del tempo.

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