— Sembri ubriaco. Che ti succede?
Lui scosse il capo. Poi annuì lentamente. — Sto ascoltando — disse.
— Che cosa?
— Non lo so. Suoni. Non-suoni. Come una musica. Il cuore. Tutti i vasi sanguigni, la frizione del sangue lungo le vene e le arterie. Attività. Musica nel sangue. — Fissò blandamente Edward. — Che scusa hai raccontato a Gail?
— Nessuna. Le ho detto solo che eri un po’ nei guai e che venivo a parlare con te.
— Puoi restare?
— No. — Percorse il locale con uno sguardo insospettito, in cerca di mozziconi di sigarette drogate, bottiglie o altro materiale equivoco.
— Non sono ubriaco, Edward — disse Vergil. — Può darsi che mi sbagli, ma mi sta succedendo qualcosa di grosso. Penso che loro stiano scoprendo chi sono io.
Edward sedette di fronte a lui e lo scrutò con attenzione. Vergil parve non accorgersene. Era assorbito da qualcosa che accadeva dentro di lui.
— C’è del caffè? — chiese Edward. Vergil fece un cenno verso la cucina. Edward mise a bollire un po’ d’acqua e trovò un pacchetto di caffè liofilizzato. Ne versò un po’ in una tazza, infine tornò a sedersi in soggiorno. Vergil stava facendo oscillare la testa avanti e indietro, a occhi aperti.
— Tu hai sempre saputo quel che volevi diventare, vero? — domandò a Edward.
— Più o meno.
— Condotta integerrima. Un ginecologo. Mai un passo falso. Io ero diverso. Avevo dei traguardi, ma non una direzione di marcia. Come una mappa senza strade, soltanto con le città. Non ho fatto niente per nessuno, salvo che per me. Anche la scienza: un mezzo per giungere a un fine. C’è da sorprendersi che io sia arrivato tanto lontano. — Afferrò i braccioli della poltrona. — E in quanto a mia madre… — Le sue mani erano bianche per la tensione. — Una strega. Una strega e un fantasma per genitori. E come figlio un changeling. Qui le piccole cose portano a grandi mutamenti.
— Non ti senti bene?
— Loro mi stanno parlando, Edward. — Chiuse gli occhi.
— Gesù! — Non c’era nient’altro che potesse dire o pensare. Cercò di convincersi che Vergil era sempre stato un burlone, capace di tutto, anche di scherzi di cattivo gusto, ma non poteva prescindere dai fatti nudi e crudi che le apparecchiature diagnostiche gli avevano mostrato.
Per un quarto d’ora Vergil sembrò dormire in poltrona. Edward gli controllò il polso e lo sentì nitido e regolare; gli tastò la fronte, che risultò fresca, poi andò a farsi un altro po’ di caffè. Stava sbirciando il telefono, incerto se chiamare un’ambulanza oppure Gail, quando Vergil spalancò gli occhi e si girò a fissarlo intensamente.
— Difficile capire come scorra il tempo per loro — disse. — Ci hanno messo forse tre o quattro giorni per decifrare il senso del linguaggio, per trovare la chiave dei concetti umani. Riesci a immaginarlo, Edward? Loro non capivano. Loro pensavano che io fossi l’universo. Ma adesso ci stanno arrivando. Stanno arrivando a me. Proprio ora. — Si alzò, ciabattò sul tappeto beige fino alle tende chiuse della finestra, annaspò dietro di esse in cerca della cordicella e le aprì di colpo. La luce della stanza parve uscire nell’abisso dell’immensa notte stellata, e Vergil fissò il firmamento con un brivido. — Devono avere migliaia dei loro ricercatori intenti ad analizzare i miei neuroni. Sono maledettamente efficienti, sai, per non avermi ammazzato per sbaglio. Così delicati dentro di me. Cambiando e cambiando.
— L’ospedale — disse Edward con voce rauca. Si schiari la gola. — Ti prego, Vergil. Subito.
— Cosa diavolo può fare un ospedale? Riesci a immaginare un qualche modo di controllare le cellule? Voglio dire, loro sono me stesso. Colpisci loro e colpirai me.
— Avrei pensato una cosa. — In realtà l’idea gli era balenata in quel preciso istante, segno chiaro che stava cominciando a credere a Vergil. — L’actinomicina può fissarsi al DNA e bloccarne la capacità di codificare. Potremmo ostacolarli in questo modo… certo arresterebbe la loro azione, come hai detto, sulle altre molecole.
— Sono allergico all’actinomicina. Mi ucciderebbe.
Edward si fissò le mani senza vederle. Questa era stata la miglior soluzione che poteva escogitare, ne era sicuro. — Potremmo fare qualche esperimento, vedere come metabolizzano, scoprire la differenza con le cellule normali. E, una volta isolato il loro principale nutrimento, forse potremmo farli morire di fame. Oppure con l’uso di radiazioni…
— Colpisci loro — ripeté Vergil voltandosi a guardarlo, — e colpirai me. — Venne a fermarsi al centro del soggiorno e si tolse la vestaglia, restando in mutande. Ma Edward, con la luce negli occhi, non vide molto. — Non sono certo di volermi liberare di loro. Non mi stanno facendo alcun male.
Edward deglutì, cercando di controllare l’ira e la frustrazione, ma stava fremendo. — Come fai a saperlo?
Vergil scosse il capo e alzò un dito. — Stanno cercando di capire che cos’è lo spazio. Questo è difficile per loro. Concepiscono la distanza in termini di diverse concentrazioni di elementi chimici. Per loro lo spazio è un susseguirsi di variazioni nell’intensità di ciò che percepiscono.
— Vergil…
— Ascoltami, Edward, rifletti! — Il suo tono era eccitato ma sotto controllo. — Dentro di me sta accadendo qualcosa. Si parlano l’un l’altro mediante proteine e acidi nucleici, attraverso i fluidi, attraverso le membrane. Costruiscono qualcosa, forse dei virus, come veicoli per trasmettere lunghi messaggi, o tratti personali, o biologici. Strutture tipo plasmidi. C’è una logica. Questi sono alcuni dei comportamenti per cui li ho programmati. Forse è questo che il tuo computer scambia per un’infezione… tutte le nuove informazioni che scorrono nel mio sangue. Chiacchiere. Sapori di altri individui. Pari loro. Superiori. Subordinati.
— Vergil, io ti sto ascoltando ma…
— Questo è il mio show, Edward. Io sono il loro universo. Sono stupefatti da questa nuova scala di grandezze. — Tornò a sedersi e per un poco restò quieto. Edward si alzò e andò a raccogliere la vestaglia di Vergil. Fu in quel momento che notò l’intreccio di linee bianche sulle sue braccia.
— Io chiamo un’ambulanza — esclamò, andando al telefono.
— No! — gridò Vergil. Si alzò di scatto. — Te l’ho detto: non sono malato. Questo è il mio show. Cosa potrebbero fare altri per me? Sarebbe una farsa.
— Allora che accidenti sono venuto a fare qui? — chiese Edward, rabbiosamente. — Hai chiamato uno dei tuoi cavernicoli, e pretendi ora…
— Tu sei un amico — disse Edward, guardandolo negli occhi. Edward ebbe l’intollerabile sospetto d’essere fissato da qualcosa di più che il solo Vergil. — Volevo che tu fossi qui a tenermi compagnia. — Rise. — Ma non posso dire d’essere precisamente solo, vero?
— Devo chiamare Gail — disse Edward, componendo il numero.
— Gail, certo. Ma non dirle niente.
— Oh, no. Ci puoi scommettere.
All’alba Vergil stava ancora andando avanti e indietro per l’appartamento, toccava oggetti, guardava fuori dalle finestre, e ogni tanto si fermava in cucina a mangiare qualcosa. — Sai, in questo momento posso sentire i loro pensieri — disse. Edward lo fissava, esausto e rigido per la tensione, da una poltrona del soggiorno. — Voglio dire, il loro citoplasma sembra avere una volontà sua. Una specie di vita inconscia, per contrasto con la razionalità che hanno acquisito così di recente. Sentono il rumore chimico delle molecole che scorrono loro attorno.
Si fermò al centro del soggiorno, con la vestaglia aperta, gli occhi chiusi. Era come se ogni tanto si fermasse per fare un sonnellino. Non era da escludere, pensò Edward, che si trattasse di brevi attacchi di petit mal. Chi poteva dire quali danni quei linfociti gli stessero facendo al cervello?
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