Ma se non sapeva cos’era reale era certo di sapere cos’era importante: la camera da letto, con le luci stradali e le ombre degli alberi proiettate sulle tende, e Gail addormentata.
Questo era importante. Gail a letto, che dormiva tranquilla.
Ripensò a Vergil che sterilizzava le colture di E. Coli mutanti. La beuta colma di linfociti intelligenti. Con perversa soddisfazione la paragonò a Krypton: la patria di Superman, con miliardi di esseri geniali distrutti da una calamità inevitabile. Omicidio? Genocidio?
La sua mente vagava fra la veglia e il sonno. Nelle tende si aprì una fessura da cui balenarono le luci della città. Avrebbe potuto essere una città qualsiasi, anche New York (se l’illuminazione fosse stata più forte) o Chicago. Lui aveva abitato a Chicago per due anni…
D’un tratto un colpo di vento spalancò silenziosamente la finestra e gli parve che la città si precipitasse all’interno: una confusione di segnali e di luci che parlavano un linguaggio preciso ma incomprensibile, fatto di lontani clackson, di voci, di rumori di cantieri al lavoro. Cercò di spingere fuori quel bailamme ma lo vide trasformarsi in una fiumana di cellule bianche che si rovesciavano sul letto, schizzavano su Gail e invadevano la stanza.
A ridestarlo, più tardi, fu una corrente d’aria e il rumore delle tende che ondeggiavano. Decise che era meglio evitare altri sogni e rimase a occhi aperti fino all’ora di svegliare Gail. Mentre la moglie usciva per andare a scuola la baciò con passione, assaporando la sana realtà delle sue labbra umane e inviolate.
Prima delle otto ripartì in auto, e sessanta chilometri più a sud imboccò di nuovo la Torrey Pine Road, oltrepassò l’Istituto Salk con la sua frastagliata e solida architettura e si lasciò alle spalle dozzine di quei nuovi o riconvertiti centri di ricerche che avevano dato il nome alla Enzyme Valley, cinti dagli eucalipti e dalle nuove conifere ibride a crescita rapida i cui antenati avevano a loro volta dato il nome alla strada.
La lastra nera incisa con rosse lettere romane incorniciava il monticello coltivato a trifoglio coreano. Gli edifici più oltre si accordavano alle stesse linee solide e squadrate, anche se il cubo nero riservato alle ricerche per il Ministero della Difesa aveva un’aria macabra.
Al cancello un uomo robusto e segaligno in divisa blu uscì dal suo cubicolo e si chinò accanto al finestrino della Volkswagen. Esaminò Edward con pacata indifferenza. — Sì, signore?
— Sono qui per vedere il Dr. Bernard.
Il guardiano gli chiese un documento d’identità. Tornò poi nel cubicolo e leggendone gli estremi parlò al telefono con qualcuno per un paio di minuti. Quando ne uscì la sua espressione placida era immutata. — Non abbiamo un parcheggio per i visitatori. Prenda il numero 31 nello spazio riservato agli impiegati. Si trova dietro quella curva, sull’ala ovest dell’edificio, di fronte all’ingresso degli uffici. Deve entrare subito, senza gironzolare altrove.
— Naturalmente! — borbottò Edward, stizzito. — Dietro la curva — ripeté. Il guardiano annuì seccamente e rientrò nel suo cubicolo.
Edward seguì il sentiero in lastre di roccia fino all’ingresso degli uffici. Rossi papiri crescevano intorno a vasche di cemento piene di carpe rosa e dorate. La porta a vetri si aprì da sola davanti a lui, lasciandolo entrare in un’anticamera circolare fornita solo di un divano per i visitatori e di un tavolo con sopra giornali e riviste tecniche.
— Cosa posso fare per lei? — domandò la receptionist, una ragazza snella e attraente coi capelli accuratamente sollevati nella ciambella in quei giorni molto di moda e che Gail non poteva assolutamente soffrire.
— Il Dr. Bernard, per favore.
— Il Dr. Bernard? — si stupì lei. — Noi non abbiamo…
— Dr. Milligan? — disse una voce.
Edward si volse e vide il Dr. Bernard entrare dalla porta automatica. L’uomo sorrise alla receptionist. — Grazie, Janet. — Lei annuì e tornò a occuparsi delle chiamate telefoniche interne. — Prego, venga con me, Dr. Milligan. Avremo una sala-conferenze tutta per noi. — Condusse Edward fuori per la porta posteriore e poi lungo il sentiero in cemento che correva attorno al pianterreno dell’ala ovest.
Bernard indossava un elegante abito grigio che si accordava al colore dei suoi capelli; il suo profilo era magro e attraente, molto simile a quello di Leonard Bernstein, e non era difficile capire perché la stampa gli accordava spesso una copertina. Era un pioniere della scienza, e per di più fotogenico. — Qui teniamo molto alla sicurezza. È un obbligo imposto dal Governo dieci anni fa, come saprà. Una massa di idioti, a mio parere. Costringono i laboratori a circondarsi di reti elettrificate, e poi a ogni conferenza di studiosi circolano valanghe di notizie. Ma cosa c’è da aspettarsi quando i politicanti ignorano la realtà che ci sta intorno? — La domanda sembrava retorica. Edward si limitò ad annuire, poi ubbidì al gesto con cui l’altro lo indirizzava su per una scala d’acciaio verso il secondo piano.
— Ha visto Vergil di recente? — chiese Bernard, chiudendo dietro di sé la porta della stanza 245.
— Ieri.
Bernard accese le luci. Il locale non era più largo di cinque metri, fornito di un tavolo rotondo con quattro sedie e una lavagna sul muro. — Sediamoci — lo invitò. Edward prese una sedia e l’altro si accomodò di fronte a lui, poggiando i gomiti sul tavolo. — Ulam è brillante. E anche, non esito a dirlo, coraggioso.
— È mio amico. Sono molto preoccupato per lui.
Bernard alzò un dito. — Coraggioso… ma è stato un maledetto sciocco. Quel che gli è accaduto non avrebbe mai dovuto essere consentito. Può aver agito per cause di forza maggiore, però non ha scuse. Comunque, quel che è fatto è fatto. Lei sa tutto, presumo.
— Nelle linee generali — annuì Edward. — Ma non ho ancora capito come sia arrivato a quel punto.
— Neanche noi, Dr. Milligan. Questo è uno dei motivi per cui gli abbiamo offerto di nuovo un laboratorio. E una casa, intanto che cercheremo di capire meglio questa faccenda.
— Non può mostrarsi in pubblico — disse Edward.
— No, infatti. Stiamo costruendo un laboratorio isolato proprio ora. Ma siamo una compagnia privata, e le nostre risorse sono limitate.
— Questo dovrebbe essere riferito alla NIH e alla FDA.
Bernard sospirò. — Sì. Be’, se in questo momento la cosa trapelasse rischieremmo di perdere molto. Non sto parlando di decisioni manageriali… vedremo andare a gambe all’aria l’intera industria dei biochip. Le conseguenze nel mondo degli affari sarebbero clamorose.
— Vergil è molto malato. Fisicamente e mentalmente. Potrebbe morire.
— Non sono affatto certo che rischi la vita — disse Bernard. — Ma ci stiamo allontanando dal nocciolo della questione.
— Quale sarebbe il nocciolo? — sbottò Edward, irritato. — Suppongo che lei stia lavorando a braccetto con la Genetron, adesso… e parla tenendo presenti gli interessi della ditta. Cosa conta di guadagnarci la Genetron?
Bernard si appoggiò allo schienale della sedia. — Posso ipotizzare un gran numero di usi pratici per minuscoli elementi computerizzati a base biologica. Lei no? La Genetron ha già fatto questo passo. Ma il lavoro di Vergil è qualcosa di ancor più evoluto.
— Quali sviluppi prevede?
Il sorriso di Bernard fu luminoso e chiaramente falso. — Non sono veramente autorizzato a parlarne. Sarà qualcosa di rivoluzionario. Dovremo studiarlo in condizioni di laboratorio. Occorreranno esperimenti su animali. Bisognerà ripartire dall’inizio, naturalmente. Vergil è… uh, una colonia che non può essere trasferita. La coltura è basata sulle sue stesse cellule. Dovremo sviluppare organismi che non possano far scattare reazioni immunizzanti in altri animali.
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