Greg Bear - L'ultima fase

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L'ultima fase: краткое содержание, описание и аннотация

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Vergil Ulam, brillante ricercatore dei Genetron Labs, sta lavorando segretamente ad un esperimento che promette risultati sensazionali, e cioè la produzione di nuclei intelligenti di materia cellulare, capaci di evolversi e di apprendere con straordinaria rapidità. Ma quando Ulam infrange le norme di sicurezza del laboratorio e viene licenziato, si rifiuta di distruggere il frutto delle sue ricerche, come gli è stato ordinato, e decide invece di iniettarsi nel sangue le colonie cellulari, e diventare così egli stesso la cavia di un nuovo straordinario esperimento. Ma sarà il primo di un incredibile processo di mutazione e trasformazione, i cui limiti non sono facilmente immaginabili, perché infatti è subito chiaro che questa forma di intelligenza virale può assorbire e riplasmare qualsiasi materia vivente. Un’epidemia assolutamente inattaccabile, un vero e proprio universo di miliardi di cellule senzienti in frenetica espansione, che lentamente inghiottono l’America del Nord, trasformandola in uno scenario “alieno” che suscita al tempo stesso orrore e meraviglia. Ma si può parlare di catastrofe? O non è piuttosto un nuovo gradino nella scala dell’evoluzione? E che ne sarà dell’umanità, letteralmente trasfigurata da questi microscopici organismi che rappresentano una nuova dimensione di ciò che si può concepire come “vita”?
Nominato per il premio Nebula in 1985.
Nominato per i premi Hugo, Campbell e BSFA in 1976.

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Per un attimo fu sul punto di chiedere a Vergil se aveva della candeggina o dell’ammoniaca, ma si trattenne in tempo. Vergil era morto. Lo stomaco di Edward riprese a torcersi, un sussulto di vomito lo fece sbandare contro la parete del corridoio e per un poco restò lì con una guancia premuta contro la tappezzeria fredda. Da quando la sua vita aveva cominciato a diventare irreale?

Dal giorno in cui Vergil era entrato al Mount Freedom Medical Center. Questo era come un altro degli scherzi di Vergil, pensò. Gli aveva fatto bere un punch di follia che avrebbe colorato di nero tutto il resto della sua esistenza, col ricordo di ciò che aveva fatto a un amico.

Frugò negli armadietti di cucina ma trovò solo tovaglie e tovaglioli. In camera da letto aprì l’armadio ma non vide altro che vestiti e biancheria di Vergil. Solo allora si accorse che l’appartamento aveva i doppi servizi, e che oltre la camera da letto c’era un secondo bagno; da dove si trovava poteva vedere la tazza del gabinetto. Aggirò il letto disfatto ed entrò nel bagno. Era più grande dell’altro, e in fondo c’era una cabina separata per la doccia. Da sotto la porta usciva un rivoletto d’acqua. Edward cercò di accendere la luce, ma in quella parte dell’appartamento l’elettricità mancava; l’unica illuminazione era data dalla finestra della camera da letto. Dietro la tazza del cesso trovò comunque un contenitore di candeggina e una latta da mezzo litro di detergente ammoniacale.

Ripercorse il corridoio e vuotò entrambi i liquidi nella vasca, sempre evitando di guardare gli occhi spalancati di Vergil. Se ne levò un vapore aspro e puzzolente che lo costrinse a uscire ed a chiudere la porta, tossendo.

Qualcuno stava chiamando sottovoce il nome di Vergil. Con i contenitori vuoti in mano Edward tornò in camera, e stupito s’accorse che la voce sembrava provenire dal bagno più grande. Fermo sulla soglia, ancora tossendo a tratti per il vapore ammoniacale, si accigliò e tese gli orecchi.

— Ehi, Vergil, sei tu? — domandò la voce. Proveniva dallo sgabuzzino della doccia. Edward fece un passo avanti, poi si fermò. È troppo, pensò. La realtà adesso stava roteando troppo, e lui voleva solo fermarsi e uscire da quell’allucinazione. Fece un secondo passo, quindi un terzo, e con una mano sfiorò il vetro opacizzato della porta.

La voce gli era parsa quella di una donna, rauca, strana, ma abbastanza tranquilla.

A tentoni trovò la maniglia e la abbassò. Con un lieve click la porta si aprì. Sforzandosi di adattare gli occhi al buio sbirciò all’interno della doccia.

— Gesù, Vergil, non mi trascurare così. Dobbiamo andarcene da questo albergo. È buio e piccolo, e non mi piace.

Riconobbe la voce che gli aveva risposto al telefono, anche se non avrebbe potuto in nessun modo riconoscere lei dall’aspetto, neppure se avesse visto una sua fotografia.

— Candice? — sussurrò.

— Vergil? Andiamo via.

Edward si volse e fuggì.

XV

Quando Edward rientrò a casa il telefono stava suonando. Non rispose. Avrebbe potuto essere l’ospedale. Avrebbe potuto essere Bernard… o la polizia. S’immaginò nell’atto di dover raccontare ogni cosa alla polizia. La Genetron avrebbe fatto tutto l’ostruzionismo possibile; Bernard era praticamente un intoccabile.

Edward era esausto, tutti i muscoli del corpo gli si erano contratti per la tensione, per il groviglio di sensazioni che una persona normale può provare dopo aver…

Commesso un genocidio?

Questo sicuramente non sembrava realistico. Non poteva convincersi di aver appena assassinato un triliardo di creature intelligenti. Noociti. Che volevano conquistare una galassia. C’era addirittura da ridere. Ma lui non rise.

Poteva ancora vedere Candice, in quella doccia.

Il lavoro era andato avanti su di lei molto più rapidamente. Le sue gambe erano andate; il torace era ridotto a qualcosa di molto sottile e impressionante. La ragazza aveva sollevato verso di lui un volto coperto di creste bianche spesse come la costola di un libro.

Aveva lasciato il palazzo a tempo per vedere un furgone bianco apparire velocemente da dietro la curva e parcheggiare di fronte, seguito dalla limousine di Bernard. Seduto nella Volkswagen aveva spiato gli uomini in candide tute isolanti usciti dal furgone, che, ci aveva fatto caso, era privo di contrassegni.

Poi aveva messo in moto, ingranato la marcia, ed era filato via di nascosto. Con la massima facilità. Per tornare a Irvine. Per scacciare l’intera faccenda dalla testa in qualunque modo, a qualunque costo, altrimenti sarebbe diventato ben presto pazzo come lo era diventata Candice.

Candice, che si stava trasformando sopra lo scarico aperto di una doccia. Lasciamo andar fuori quelle piccole pulci, aveva detto Vergil. Mostriamo loro cos’è il mondo esterno.

Non era per niente difficile convincersi che aveva appena ucciso un essere umano, un amico. Il fumo, gli elettrodi fusi della lampada, il cordone che sfrigolava nell’acqua e il puzzo di bruciato.

Vergil.

Lui aveva immerso la lampada nella vasca in cui c’era Vergil.

Erano bastati il corto circuito e il disinfettante a eliminare tutte le cellule? Forse Bernard e il suo gruppo si sarebbero preoccupati di finire ciò che lui aveva cominciato.

Ma ne dubitava molto. Chi mai avrebbe potuto circoscrivere davvero quella faccenda, capirla davvero? Lui no di certo; erano accaduti dei fatti orribili, spiacevoli da pensare e ancor peggiori da vedere, e non poteva illudersi di presagire ciò che sarebbe successo in seguito. A stento riusciva a credere vero quel che era capitato.

Ricordò il sogno, la città di leucociti che aggrediva Gail, le galassie di cellule che turbinavano contro tutti loro. Che angoscia… e tuttavia poi che potenziale di seduzione: un nuovo genere di vita, di simbiosi e di trasformazioni.

No. Quello era un pensiero sbagliato. Ma cambiare — cambiare molto — poteva significare in meglio e così come giustificare le sue obiezioni a un nuovo ordine, una nuova trasformazione visto che, lui lo sapeva bene, gli esseri umani non erano ancora abbastanza evoluti, e doveva esserci qualcosa di più, e Vergil aveva fatto quel passo, e nel suo modo sciocco e cieco aveva dato l’avvio al prossimo stadio dell’umanità.

No. Nella vita non c’erano stadi né mutamenti così drastici, non c’era posto per cose sconvolgenti come Candice nella doccia o Vergil morto nella vasca. La vita era il diritto di un individuo al normale progresso della sua normalità. Chi poteva togliergli quel diritto? Chi poteva presumere che avrebbe accettato di perderlo? E perché lui si metteva a ipotizzare su quel che poteva succedere, se non capiva neppure quel che era successo? Gli girava la testa.

Disteso sul divano si coprì gli occhi con un avambraccio. In vita sua non s’era mai sentito così stanco: psichicamente svuotato, senza più emozioni, incapace anche di pensare con chiarezza. Ma era riluttante a dormire un poco; sentiva gli incubi costruire già le loro teste di ponte, in attesa di mostrargli echi deformati di ciò che aveva visto.

Spostò il braccio e fissò il soffitto. C’era una vaga possibilità di quello che aveva appena avuto inizio venisse fermato. Forse lui era il solo che poteva dare il via a una catena di fatti diretti a quell’obiettivo. Avrebbe potuto avvertire il Centro Controllo Malattie Epidemiche (sì, ma quali erano le loro possibilità di azione?). O forse il Ministero della Difesa. O cominciare dall’Ufficio Igiene della Contea, attraverso la solita burocrazia? E c’erano anche il VA Hospital e la Clinica Scripps di La Jolla.

Si rimise l’avambraccio sugli occhi. Non esisteva alcuna chiara linea di condotta.

Gli eventi, semplicemente, esorbitavano dalla sua capacità di affrontarli. Immaginava che nella storia umana fosse capitato spesso: onde di marea di avvenimenti che surclassavano gli individui singoli e li trascinavano via. Li spingevano a pensare con desiderio a qualche posto isolato, magari un piccolo villaggio messicano dove niente accadeva mai, e dove potevano rifugiarsi a dormire, nient’altro che dormire.

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