— Posso parlare con Vergil, per favore?
— Chi devo dirgli che lo desidera? — Il tono di lei era così formale da sembrare comico.
— Edward. Lui mi conosce bene.
— Naturalmente. È il medico. Aspettava questa sua chiamata. — Una mano coprì il microfono, smorzando la voce di lei, rauca e un po’ tesa: — Vergil! Il dottore.
Vergil ansimò, impaziente: — Edward! Che mi dici?
— Salve, Vergil. Ho alcuni risultati degli esami, non molto conclusivi. Però vorrei parlarti, qui, in ospedale.
— Cosa dicono questi esami?
— Che tu sei molto malato.
— Sciocchezze.
— Ti sto solo riferendo la diagnosi dell’analizzatore automatico. Un conteggio troppo alto dei linfociti…
— È naturale. Questo si accorda perfettamente…
— E un’incredibile varietà di proteine e detriti vari nel tuo sangue. Istamine. Sembri uno che stia morendo di qualche grave infezione.
Sul filo ci fu un lungo silenzio, poi Vergil disse: — Non sto morendo.
— Credo che tu dovresti venire qui e lasciarti fare altri esami. Chi ha risposto al telefono? Candice? Lei…
— No, Edward. Io ho chiesto il tuo aiuto. Lasciamone fuori gli altri. Sai bene ciò che penso degli ospedali.
Edward ebbe una risata secca. — Vergil, io non ho la competenza per farti una diagnosi da solo.
— Ti ho già detto di che si tratta. Adesso devi aiutarmi a tenerli sotto controllo.
— Questa è pazzia, cose senza senso, Vergil! — Edward si batté con forza un pungo su un ginocchio. — Scusa. Forse la mia reazione è eccessiva. Ma spero che tu ne capisca il motivo.
— Io spero che tu capisca come mi sento io in questo momento. Sono su di giri. E sto sudando freddo di paura. E mi sento fiero di me. Ti sembra che tutto questo abbia un senso?
— Vergil, io…
— Vieni a casa mia. Parleremo un po’ e cercheremo di capire a cosa sto andando incontro.
— Ho da fare, Vergil.
— Quando puoi liberarti?
— Ho l’agenda piena per i prossimi cinque giorni. Stasera, forse. Dopo cena.
— Soltanto tu, nessun altro — disse Vergil.
— D’accordo. — Cercò di far mente locale. Gli sarebbero occorsi almeno settanta minuti d’auto per arrivare a La Jolla. Disse a Vergil che sarebbe stato da lui per le nove.
Tornato a casa, verso le sei del pomeriggio, Edward spiegò a Gail come stavano le cose. — Mi spiace ma sembra che stasera dovrò uscire — disse, e si offrì di aiutarla a preparare qualcosa da cena.
Lei accolse quelle novità con un borbottio, e non parlò molto mentre lo aiutava a improvvisare un’insalata mista. — Mi sarebbe piaciuto che tu dessi un’occhiata a qualche videonastro — disse poi, a tavola, gettandogli un’occhiata in tralice. I ragazzini della sua classe si stavano cimentando da una settimana con la video-art, e lei era orgogliosa dei risultati.
— C’è il tempo? — chiese diplomaticamente lui. Prima di sposarsi avevano già sperimentato alcune situazioni critiche, rischiando quasi di lasciarsi. Adesso, quando insorgevano nuove difficoltà, ambedue tendevano a essere eccessivamente delicati ed a prendere l’argomento molto alla larga.
— Probabilmente no — ammise Gail. Si servì un’altra porzione di zucchini fritti. — Cos’ha Vergil che non va, questa volta?
— Questa volta?
— Sì. Ti ha già chiesto aiuto, anni fa. Quando lavorava per la Westinghouse e aveva dei guai con quei copyright.
— Svolgeva per loro un lavoro indipendente.
— Sì. E adesso cosa puoi fare per lui?
— Non sono neppure certo quale sia il suo problema — disse Edward, più evasivo di quel che avrebbe voluto.
— È un segreto?
— No. Forse. Ma è una faccenda strana.
— È ammalato?
Edward abbassò la testa e con una mano fece un gesto: Chi lo sa?
— Non te la senti di parlarmene?
— Non subito. — Le rivolse un sorrisetto nel tentativo di placarla, col prevedibile risultato d’irritarla ancor di più. — Mi ha chiesto di non parlarne a nessuno.
— C’è qualche probabilità che ti metta nei guai?
Quella era una cosa a cui Edward non aveva ancora pensato. — Credo di no — disse.
— A che ora tornerai, stanotte?
— Più presto che potrò — disse. Le accarezzò una guancia con la punta delle dita. — Non preoccuparti — mormorò dolcemente.
— Oh, no — lo rassicurò lei. — Neanche un po’.
Guidando l’auto sulla strada per La Jolla l’umore di Edward si fece cupo: qualunque cosa potesse pensare sulle condizioni di Vergil, aveva l’impressione di penetrare in un altro universo. Un universo dalle differenti leggi fisiche, in cui si sentiva incapace di prevedere le conseguenze di ogni azione.
Uscì dall’autostrada all’altezza di La Jolla Village Drive, poi seguì la Torrey Pine Road fino in città. La strada scendeva in lente curve lungo le quali piccole ville dall’aria costosa si alternavano a condominii di tre e quattro piani. Ciclisti e podisti in eleganti tute multicolori sfidavano l’aria fresca della sera; anche a quell’ora La Jolla era animata da gente che passeggiava o faceva esercizio.
Con una certa difficoltà trovò un piccolo posto per parcheggiare, e abilmente vi insinuò la Volkswagen. Mentre richiudeva la portiera annusò con piacere l’aria di mare, e si chiese se Gail sarebbe mai stata disposta a trasferirsi lì. Gli affitti dovevano essere esorbitanti, e fare il pendolare gli avrebbe portato via tempo prezioso. Decise che simili «status symbol» non gli importavano poi molto. Tuttavia i dintorni erano simpatici… 410 Pearl Street, non la zona migliore della cittadina, anche se sempre superiore a ciò che lui per il momento poteva permettersi. Era tipico di Vergil cercare e trovare occasioni come quel condominio. D’altra parte, stabilì Edward mentre suonava alla porta del pianterreno, se alla fortuna di Vergil doveva accompagnarsi tutto il resto della sua personalità, non gliela invidiava affatto.
L’ascensore aveva un impianto che suonava musica melodica e distribuiva serie d’immagini oleografiche per informare i condomini di vendite speciali, prezzi di prodotti e attività sociali della settimana. Al terzo piano Edward trovò due specchi in cornice di marmo e oro, e un mobiletto in stile Luigi XV.
Vergil era già ad attenderlo sulla porta dell’appartamento, e lo condusse subito dentro. Indossava una spiegazzata vestaglia a maniche lunghe e pantofole. In mano teneva nervosamente una pipa spenta, e mentre lo precedeva in soggiorno e si gettava a sedere in poltrona non disse una parola.
— Hai un’infezione — esordì Edward, mostrandogli il foglio delle analisi.
— Oh? — Vergil lo percorse appena con un’occhiata, poi lo depose sul vetro del tavolino da caffè.
— Questo è ciò che dice il nostro computer.
— Sì, be’, è chiaro che non è stato programmato per casi anomali di questo genere.
— Forse no, ma devo avvertirti che…
— Lo so. Scusa se sono stato rude, Edward, ma cosa può fare per me un ospedale? Farei prima a dare un computer a una tribù di cavernicoli e chiedergli di ripararmelo. Quelle immagini… senza dubbio mostravano qualcosa, però noi non siamo in grado di stabilire cosa.
Edward si tolse il soprabito. — Ascolta, non nascondo che tu mi preoccupi, adesso. — L’espressione di Vergil era lentamente mutata, il suo volto si distese in una sorta di beatitudine mentre alzava gli occhi al soffitto. Li socchiuse, con uno strano mormorio di compiacimento.
— Dov’è Candice? — chiese Edward, accigliato.
— Ha deciso di trascorrere la sera fuori. Non stiamo andando troppo bene in questo momento.
— Lei sa?
Vergil sorrise languidamente. — Come potrebbe non sapere? Mi può vedere nudo ogni notte. — E distolse subito lo sguardo. Edward capì che stava mentendo.
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