— Naturalmente. Voglio saperne di più.
Vergil non aveva ancora toccato il formaggio e la torta, però aveva mangiato l’ananas e bevuto il latte al cioccolato. — Circa cinque anni fa dovetti cominciare dal niente, e senza aiuto. Col mio diploma della scuola di medicina e l’esperienza che avevo nei computer era inevitabile che puntassi sulla Enzyme Valley. Andai avanti e indietro per tutta la Torrey Pine Road coi miei scartafacci in mano, e fui assunto dalla Genetron.
— Così, semplicemente?
— No. — Vergil infilò un pezzetto di formaggio, poi depose la forchetta. — Avevo rimaneggiato un po’ i miei documenti. Diplomi, risultati di esami, questo tipo di cose. Nessuno ha mai avuto sospetti. Fin dal principio feci un buon lavoro, e sviluppai per loro strutture proteiche necessarie alle ricerche preliminari sui biochip. La Genetron ha impianti costosi, e ci veniva dato tutto il necessario. Quattro mesi più tardi avevo il mio laboratorio personale, e inoltre il permesso di condurre ricerche indipendenti. Feci subito dei passi avanti in un campo nuovo. — Mosse una mano con fare noncurante. — Poi cominciai a uscire dalle loro regole. Portavo avanti il mio lavoro normale, ma era questione di tempo… la direzione scoprì tutto e mi fece fuori. Io ho agito in modo da… salvare i miei esperimenti. Però non sono stato precisamente accorto, né prudente. Così adesso l’esperimento continua fuori dal laboratorio.
Edward aveva sempre ritenuto Vergil un ambizioso, con più che una semplice tendenza a comportamenti anormali. Durante il periodo scolastico le sue relazioni con le autorità della scuola erano state tutt’altro che lisce. Già da tempo Edward aveva concluso che per Vergil la scienza era come una donna affascinante e irraggiungibile, la quale gli aveva aperto le braccia prima che lui fosse pronto per una relazione adulta… mettendogli addosso la paura di non saper sfruttare l’occasione, di non riscuotere il premio finale, di veder fuggire il suo obiettivo. All’apparenza l’aveva però raggiunto. — Fuori dal laboratorio? Non ti seguo.
— Voglio che tu mi esamini. Una visita medica completa. Forse anche i test sul cancro. Poi ti spiegherò tutto.
— Vuoi esami per un migliaio di dollari, insomma?
— Tutto quello che puoi farmi. Ultrasuoni, NMR, PET, termografie, e ogni altra analisi.
— Non so se potrò avere accesso a queste apparecchiature, Vergil. Le attrezzature per il PET a gamma intera sono state montate qui solo da un paio di mesi. Diavolo, non puoi accontentarti di uno economico…
— Allora ultrasuoni e NMR. Non avrai bisogno d’altro.
— Io sono un ostetrico, Vergil, non uno di questi brillanti astri del laboratorio. Potrei occuparmi a fondo di te solo se tu fossi una donna.
Vergil si protese avanti e uno dei suoi gomiti fu sul punto di poggiarsi sulla fetta della torta, ma la evitò per un millimetro all’ultimo istante. Il vecchio Vergil l’avrebbe spiaccicata. — Se mi visiti con attenzione vedrai che… — Socchiuse gli occhi e scosse il capo. — Visitami. È questo che ti chiedo.
— Va bene, prenderò appuntamento per gli ultrasuoni e il NMR. Ma chi è che paga?
— Ho un conto spese medico. L’ho inserito fra i miei documenti nel computer della Genetron, prima di andarmene. Posso arrivare a mille dollari senza che nessuno sospetti o controlli. E tutto dovrà restare assolutamente confidenziale.
Edward scosse la testa. — Stai chiedendo molto, Vergil.
— Vuoi scrivere il tuo nome nella storia della medicina, o no?
— È uno scherzo?
Vergil lo fissò. — Non per te, amico.
Edward si occupò delle formalità quel pomeriggio, riempiendo lui stesso i moduli. Da quel che sapeva della metodologia dell’ospedale, finché le prestazioni venivano pagate la maggior parte degli esami poteva essere eseguita senza darne nota ufficialmente. Per il suo servizio non chiese nulla. Dopotutto Vergil lo aveva fatto orinare azzurro. Erano amici.
Al termine del suo orario rimase in ufficio, e chiamò Gail per spiegargliene brevemente il motivo. Lei sospirò, come sospirano le mogli dei medici, e disse che gli avrebbe lasciato una cena fredda sul tavolo per quando fosse tornato a casa.
Vergil venne in ospedale alle dieci di sera e s’incontrò con Edward nella saletta dove s’erano dati appuntamento, al terzo piano di quello che le infermiere chiamavano il Padiglione Frankenstein. Seduto su una sedia di plastica arancione Edward depose la copia di My Things che stava leggendo, e notò che l’amico sembrava sperduto e preoccupato. Sotto le lampade fluorescenti la sua pelle aveva una tonalità verdolina.
Edward fece segno all’infermiera del turno di notte che quello era il suo paziente, e tenendolo per un gomito lo condusse nel reparto esami. Nessuno dei due parlò molto. Appena Vergil si fu spogliato lo fece distendere sul lettino mobile di fronte a una grossa apparecchiatura. — Hai le caviglie gonfie — disse, palpandogliele. Erano solide, per niente molli. Robuste, anche se diseguali. — Mmh! — borbottò Edward, un po’ stupito. Vergil inarcò un sopracciglio come per dire: «Ancora non hai visto niente».
— Va bene. Adesso ti farò una dozzina di stratigrafie soniche, poi trasformeremo i risultati in un’immagine video. — Dispose le membra di Vergil in modo che non vi fossero zone celate all’indagine dell’apparecchiatura. Poi girò il lettino e lo spinse nell’orifizio cilindrico — l’alveare, come lo definivano le infermiere — che sarebbe stato saturato dagli ultrasuoni. Dopo dodici stratigrafie diversamente orientate, dalla testa ai piedi, lo tirò fuori. Vergil aveva gli occhi chiusi e sudava un tantino.
— Ancora la claustrofobia? — s’informò Edward.
— Non come una volta.
— L’NMR sarà un po’ peggio.
— Guidami con cuore saldo, McDuff.
Lo scandaglio computerizzato NMR era un impotente parallelepipedo in cromo e plastica azzurra, e occupava quasi per intero un locale, lasciando appena lo spazio per manovrare col lettino a rotelle. — Ti avverto che in questo non sono un esperto, così potrà occorrermi un po’ più di tempo — disse Edward, spingendo Vergil nella cavità rettangolare.
— È il prezzo che paghiamo alla scienza — mugolò Vergil, e quando Edward bloccò il portello trasparente chiuse gli occhi. I massicci magneti che circondavano il suo corpo ronzarono per un quarto d’ora. Edward istruì il computer di trasferire i dati ai terminali diagnostici della stanza accanto, quindi aiutò l’amico a uscire.
— Tutto bene? — gli chiese.
— Courage - sospirò Vergil in francese.
Nel locale di diagnostica Edward accese un grande schermo VDT e chiese immagini integrate dei dati medici. Nella penombra il video balenò alcuni secondi, poi cominciarono a prender forma contorni riconoscibili.
— Ecco il tuo scheletro — disse Edward. Poi corrugò le sopracciglia, mentre sullo schermo apparivano gli organi del torace, quindi i muscoli, e infine il sistema vascolare e la pelle.
— Quanto tempo è trascorso dall’incidente? — domandò Edward, accostando il volto allo schermo. Non riuscì a reprimere un moto di sorpresa.
— Non ho avuto nessun incidente — rispose Vergil.
— Gesù! Ti hanno minacciato per farti tenere il segreto?
— Tu non vuoi capirmi, Edward. Guarda ancora l’immagine. Non c’è segno di traumi.
— E questi ispessimenti ossei come li chiami? — replicò lui, indicando l’articolazione tibio-tarsica bilaterale. — E le costole… tutte queste stranissime sporgenze a zig-zag. Ci sono state delle fratture, è ovvio. E qui…
— Osserva la mia colonna vertebrale — suggerì Vergil. Edward fece ruotare l’immagine posteriormente.
Per un attimo l’eco di quel nome, «Padiglione Frankenstein», lo fece trasalire. Ciò che vedeva era fantastico. Invece che da vertebre, la colonna di Vergil appariva composta da una fila di ossa triangolari, connesse fra loro in modo che lui non riuscì affatto a decifrare. E ancora meno a comprendere. — Ti spiace farti palpare un momento?
Читать дальше