Clifford Simak - L'anello intorno al sole

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Al principio sono modeste bottegucce, sparse qua e là per l’America, che vendono oggetti d’uso comune, lampadine, lamette, accendisigari. La gente passa, legge il cartellino che ne vanta la durata eterna, e sorride. Ma poi, incuriosita, entra. Il prezzo è bassissimo, perché non provare? E a migliaia, a milioni, le lampadine e le lamette eterne cominciano a diffondersi, seguite dalle automobili eterne, dalle case prefabbricate eterne, dagli indumenti eterni... Di colpo, tutto il mondo industriale si trova sull’orlo del collasso, i governi sono presi dal panico, il sistema economico internazionale sta per saltare. Chi sono i misteriosi fabbricanti? Cosa si nasconde dietro questa incredibile operazione commerciale? Un gruppo operativo segreto, formato dai massimi cervelli della politica, della scienza, dell’economia, viene incaricato di scoprire il nemico e combatterlo con qualsiasi mezzo. E questi uomini disperati, con le spalle al muro, hanno l’idea di convocare uno scrittore niente affatto celebre, che vive in campagna, e di fargli una proposta giornalistica niente affatto stravagante. Sembra un po’ poco come contromisura: non c’è libro o inchiesta che possa capovolgere la situazione, a questo punto. A meno che lo scrittore non sia affatto quello che sembra, che il suo mestiere sia soltanto una facciata, che la sua vera identità si nasconda tra le strisce colorate di una vecchia trottola che gira all’infinito, verso l’infinito, dentro l’infinito.

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Ma aveva dovuto venire: aveva dovuto , letteralmente. Si era fermato due volte davanti al portone del palazzo, e poi aveva girato sui tacchi e se ne era andato. Questa volta non se ne era andato, non poteva andarsene: era entrato e adesso era lì, davanti alla porta, ad ascoltare il suono dei passi che si avvicinavano, pensando al silenzio che aveva risposto dall’altro capo del filo quando le aveva telefonato, un giorno che era vicino ma gli sembrava separato da torrenti di eternità da quel momento, un giorno nel quale aveva cominciato a sapere, ma era stato fortunato, e non aveva ancora saputo abbastanza.

E cosa le avrebbe detto, si domandò freneticamente, quando la porta si fosse aperta? Che cosa avrebbe fatto? Sarebbe entrato come se non fosse successo niente, come se lui fosse stato la stessa persona, e lei la stessa persona, del loro ultimo incontro?

Doveva dirle che era una mutante, e peggio ancora un androide, una donna artificiale?

La porta si aprì, e lei era una donna, incantevole come la ricordava; e tese le mani e l’attirò dentro, e chiuse l’uscio e vi si appoggiò contro.

«Jay,» disse Ann. «Jay Vickers.»

Lui tentò di parlare, ma non ci riuscì. Rimase lì a guardarla e a pensare: Non può essere vero. È una menzogna. Non è vero.

«Cos’è successo, Jay?» domandò lei. «Avevi promesso… avevi promesso di chiamarmi…»

Vickers tese le braccia, mentre cercava di vietarselo, e lei compì un movimento rapido, quasi disperato, e vi si rifugiò. La tenne stretta, e fu come se fossero immersi nella consolazione suprema di un’infelicità che ciascuno aveva creduto ignorata dall’altro.

«In principio ho pensato che tu fossi un po’ pazzo,» disse lei, sottovoce. «Ricordando certe cose che avevi detto al telefono da quella cittadina del Wisconsin, mi ero quasi convinta che avessi qualcosa che non andava… che ti avesse dato un po’ di volta il cervello. Poi il giorno dopo sono accadute tante cose, e non è più stato come prima, e allora ho pensato… ho pensato… ho pensato le cose più orribili e non ho saputo rimanere calma, e ho avuto paura, perché ricordavo altre cose, strane cose da niente che tu avevi fatto o detto o scritto, e…»

«Calmati, Ann,» le disse. «Non hai bisogno di dirmelo.»

«Jay, ti eri mai chiesto, prima, se eri completamente umano? Se non c’era in te qualcosa di diverso… di inumano?»

«Sì,» disse lui. «Me lo ero chiesto… spesso.»

«E io sono sicura che non lo sei, ed è per questo che ho avuto paura. E allo stesso tempo sono stata felice, perché per me va bene così, perché anch’io… anch’io penso di non essere umana.»

Allora Vickers la strinse più forte. Ora che si sentiva cinto dalle braccia di lei, comprese finalmente che, l’uno aggrappato all’altra, erano due anime smarrite e senza amici in un mare di umanità. Ognuno di loro aveva soltanto l’altro. L’altro, e i propri terrori, le proprie apprensioni, le angosce che non aveva osato confessare neppure a se stesso negli anni che erano passati, la paura che aveva spinto Ann a fuggire dalla sua casa e dal suo ufficio quel giorno, quando c’era stata la rivelazione, quando tutti avevano parlato della cosa che era stata rivelata… e poi, attraverso chissà quali abissi di terrore e di sofferenza, lei era ritornata, era riuscita a capire il suo smarrimento, era ritornata a stare là, sfidando il pericolo, temendo per lui. Era la solitudine e il dubbio e la sofferenza di molto, molto tempo, la cosa tanto dolce che li univa. Anche se tra loro non vi fosse stato amore, dovevano stare vicini, uniti contro il mondo.

Il telefono squillò, dal tavolo in fondo, e loro lo udirono appena.

«Ti amo, Ann,» disse Vickers, e una parte del suo cervello che non era lui, era un osservatore freddo e distaccato, gli ricordò che sapeva di non poterla amare, che era impossibile e immorale e assurdo amare qualcuna che poteva essergli più vicina di una sorella, e la cui vita un tempo era stata parte della sua vita, e in futuro si sarebbe fusa con la sua vita in un’altra personalità, forse completamente ignara di loro.

«Ho ricordato,» gli disse Ann, con voce vaga e lontana, «e non ho compreso bene. Forse tu puoi aiutarmi a capire.»

Con le labbra irrigidite dall’apprensione, Vickers chiese:

«Che cos’hai ricordato, Ann?»

«Una passeggiata, insieme a qualcuno. Ho tentato, ma non ricordo il suo nome, anche se riconoscerei il suo viso, dopo tutti questi anni. Passeggiavamo in una valle, scendendo da una grande casa di mattoni che sorgeva su una collina, in fondo. Passeggiavamo nella valle ed era primavera perché i meli selvatici erano in fiore, e c’erano uccelli che cantavano, e la cosa più strana di quella passeggiata è che non l’ho mai fatta, eppure la ricordo. E anche questo mi ha fatto paura, insieme a tutte le altre cose, eppure mi ha dato un senso di nostalgia, e non l’ho saputo spiegare. Jay, che cosa mi sta capitando? Che cosa sta succedendo a tutti? Come si può ricordare qualcosa, Jay, quando sai bene che non è mai accaduto?»

«Non so,» disse Vickers. «Forse è l’immaginazione. Qualcosa che hai letto da qualche parte.»

Ma era così, lo sapeva. Era la prova di ciò che lui aveva sospettato.

Erano tre, aveva detto Flanders: tre androidi ricavati da un’unica vita umana. I tre erano lui e Flanders e Ann Carter. Perché Ann ricordava la valle fatata come la ricordava lui… ma poiché lui era un uomo vi aveva passeggiato con una donna chiamata Kathleen Preston, e poiché Ann era una donna vi aveva passeggiato con un uomo di cui non ricordava il nome. E quando e se l’avesse ricordato, non sarebbe stato esatto. Perché, se lui aveva passeggiato insieme a qualcuno, non era stato con una ragazza chiamata Kathleen Preston, ma con una ragazza dal nome diverso.

«E non è tutto,» disse Ann. «Io so quello che pensano gli altri. Io…»

«Ti prego, Ann,» disse lui.

«Io mi sforzo di non sapere ciò che pensano, ora che mi sono accorta di poterlo fare. Ma so, adesso, che l’ho fatto da anni, più o meno inconsciamente. Anticipavo ciò che gli altri stavano per dire. Conoscevo le loro obiezioni prima che le esponessero. Sapevo ciò che sarebbe andato loro a genio. Sono un’abile donna d’affari, Jay, e forse è per questo. Posso entrare nella mente degli altri. L’ho fatto l’altro giorno… quando ho cominciato a sospettare di essere in grado di farlo, ho provato, volutamente, per vedere se era vero o se l’immaginavo soltanto. Non è stato facile, e non sono ancora molto esperta. Ma ci sono riuscita! Jay, ho potuto…»

Vickers la tenne stretta e pensò: Ann è una dei telepati, una di coloro che possono raggiungere le stelle.

«Cosa siamo, Jay?» domandò lei, ed era quasi un’implorazione. «Dimmi che cosa siamo.»

Il telefono squillava imperioso.

«Più tardi,» disse lui. «Non è poi tanto tremendo. Sotto certi aspetti è meraviglioso. Sono tornato perché ti amavo, Ann. Ho cercato di stare lontano da te, ma non potevo. Perché non è giusto…»

«È giusto,» disse lei. «Oh, Jay, è la cosa più giusta del mondo. Ho pregato perché tu ritornassi da me. Quando ho capito che qualcosa non andava, ho avuto paura che non saresti tornato… che non potessi, che ti fosse accaduto qualcosa di terribile. Ho pregato, e sentivo che era inutile perché la preghiera mi era estranea, e mi sentivo ipocrita…»

Lo squillo era insistente, rabbioso.

«Il telefono,» disse lei.

Vickers la lasciò andare e lei si avvicinò al divano, sedette, e sollevò il ricevitore, mentre lui restava in piedi a guardare la stanza, e cercava di metterle a fuoco… la stanza e Ann, come le ricordava.

Ann si volse.

«È per te,» disse.

«Per me?»

«Sì, il telefono. Qualcuno sapeva che saresti venuto qui.»

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