Baley annaspava in cerca delle parole appropriate, infine disse: «Dovrebbe significare qualcosa?».
Gladia rise con la sua piacevole voce di contralto. «Significa qualunque cosa ti piace che significhi. Sono solo forme-luce che potrebbero farti sentire adirato, o curioso, o felice, o qualunque altra cosa provavo io quando le ho costruite. Potrei farne una per te, una specie di ritratto. Però potrebbe anche non venire tanto bene, perché dovrei improvvisare.»
«Lo faresti? Mi interesserebbe molto.»
«Va bene» disse lei e fece una piccola corsa fino a una figura in un angolo, passandogli vicina qualche centimetro. Sembrò che non lo notasse.
Toccò qualcosa sul piedistallo della figura-luce e lo splendore al di sopra morì senza un tremolio.
Baley annaspò e disse: «Non farlo».
«Va tutto bene. Comunque mi aveva stancato. Abbasserò temporaneamente le altre, in modo che non mi distraggano.» Aprì un pannello su un muro liscio e spostò un reostato. I colori svanirono in qualcosa di scarsamente visibile.
«Non hai un robot per fare questo?» chiese Baley. «Che chiuda i contatti?»
«Zitto, ora» disse lei con impazienza. «Non tengo robot, qui. Tutto questo sono io. » Lo guardò fremendo. «Non ti conosco abbastanza, è questo il guaio.»
Non guardava il piedistallo, ma le dita posavano leggere sul ripiano, tutte e dieci curve, tese, in attesa.
Un dito si mosse, descrivendo una mezza curva sulla superficie liscia. Una sbarra di luce giallo cadmio sciabolò obliquamente nell'aria al di sopra. Il dito s'inclinò un po' indietro e la luce diventò meno profonda nell'ombra.
Lei lo guardò un istante. «Immagino che sia così. Una specie di forza senza peso.»
«Giosafatte.»
«Ti sei offeso?» Sollevò le dita e la linea obliqua di luce rimase stazionaria in alto.
«No, niente affatto. Ma che cos'è? Come fai?»
«È difficile a spiegarsi,» disse Gladia, mentre guardava pensierosamente il piedistallo, «tenendo conto che in realtà non lo capisco neanch'io. È una specie di illusione ottica, mi hanno detto. Componiamo campi di forza a diversi livelli di energia. In realtà sono espulsioni dell'iperspazio e non hanno affatto le proprietà dello spazio ordinario. A seconda del livello d'energia, l'occhio umano vede luci di tonalità diverse. Le forme e i colori sono controllati dal calore delle mie dita contro punti adatti del piedistallo. Dentro ogni piedistallo ci sono tutti i tipi di controlli.»
«Vuoi dire che se ci mettessi su un dito…» Baley avanzò e Gladia gli lasciò il posto. Mise esitando un polpastrello sulla superficie e avvertì una leggera pulsazione.
«Va' avanti. Muovi il dito, Elijah» disse lei.
Baley lo fece e una frastagliatura di luce grigio sporco apparve nell'aria ad attraversare la luce gialla. Baley ritirò il dito di scatto e Gladia rise per poi prendere subito un'aria contrita.
«Non avrei dovuto ridere» disse. «È proprio difficile a farsi, perfino per gente che ci ha provato per lungo tempo.» Mosse la mano leggermente e troppo in fretta perché Baley potesse seguire il movimento e la mostruosità che lui aveva fatto sparì, lasciando la sola luce gialla.
«Come hai imparato a farlo?» chiese Baley.
«Continuando a provare. È una nuova forma d'arte, sai, e solo uno o due sanno davvero come…»
«E tu sei la migliore» concluse Baley tetro. «Su Solarìa tutti sono i migliori o gli unici in qualche campo.»
«Non mi prendere in giro. Ho fatto mostre dei miei piedistalli. Ho dato spettacoli.» Alzò il mento. Il suo orgoglio era inequivocabile.
«Fammi andare avanti con il tuo ritratto» continuò lei. Mosse ancora le dita.
Nella forma-luce apparvero alcune curve che crebbero e si modificarono alle sue direttive. Ora era tutta angoli acuti. E il colore dominante era il blu.
«Quella è la Terra, in un certo senso» commentò lei, mordendosi il labbro inferiore. «Ho sempre pensato alla Terra come blu. Tutta quella gente che vede, vede, vede. Visionare è più rosa. Come ti sembra?»
«Giosafatte, non riesco a immaginarmi le cose come se fossero dei colori.»
«Ah, no?» disse lei distratta. «Ora, tu ogni tanto dici “Giosafatte” e questo vuol dire una pallina viola. Una piccola pallina netta, perché di solito lo esclami all'improvviso, così.» E la pallina viola apparve brillando da un lato.
«E poi,» disse lei «posso finire così.» E un grande cubo grigio-ardesia, liscio e opaco, salì a rinchiudere ogni cosa. Le luci all'interno vi brillavano attraverso, ma attenuate, imprigionate, in un certo senso.
Nel vederlo Baley provò tristezza, come se ci fosse qualcosa che lo tenesse rinchiuso e lontano da quello che voleva. «E quest'ultima cosa, cos'è?» chiese.
«Be',» spiegò Gladia «i muri intorno a te. È quello che c'è di più in te, il modo in cui non riesci ad andar fuori, il modo in cui devi a tutti i costi stare dentro. Là dentro ci sei davvero. Non vedi?»
Baley vedeva e in un certo senso disapprovava. «Quei muri» disse «non sono permanenti. Oggi sono stato fuori.»
«Davvero? E ti dava fastidio?»
Non riuscì a reprimere una ritorsione. «Come a te dà fastidio vedere me. Non ti piace, ma riesci a sopportarlo.»
Lei lo guardava pensierosa. «Vuoi venire fuori, ora? Con me? A fare una passeggiata?»
Baley ebbe l'impulso di esclamare: Giosafatte, no.
Lei proseguì: «Non ho mai camminato con qualcuno, vedendoci. È ancora giorno, e il tempo è piacevole».
Baley guardò il suo ritratto astratto e disse: «Se vengo, toglierai il grigio?».
Lei sorrise. «Dipende da come ti comporterai.»
La struttura di luce rimase così, mentre lasciavano la stanza. Restava lì, tenendo l'anima di Baley imprigionata nel grigio delle Città.
Baley rabbrividì leggermente. L'aria si spostava contro di lui portandogli un brivido.
«Hai freddo?» chiese Gladia.
«Prima non era così» borbottò lui.
«Ora è pomeriggio inoltrato, ma non fa davvero freddo. Vorresti un cappotto? Un robot può portartene uno in un minuto.»
«No, va tutto bene.» Camminavano lungo uno stretto sentiero pavimentato. «È qui che facevi le passeggiate col dottor Leebig?»
«Oh, no. Andavamo per i campi, dove puoi vedere solo qualche robot che lavora, ogni tanto, e udire i rumori degli animali. Noi invece staremo vicino alla casa, non si sa mai.»
«Non si sa mai cosa?»
«Che tu desideri rientrare.»
«O che tu ti stanchi di vedermi?»
«Non mi dà fastidio» disse lei con aria leggera.
Sopra di loro c'era il vago stormire delle foglie e una tonalità giallo-verde permeava ogni cosa. Nell'aria c'erano delle grida lontane e un ronzio stridente. E c'erano le ombre.
Era particolarmente consapevole delle ombre. Una di queste gli stava attaccata sotto, a forma d'uomo, e si muoveva come lui con mimica orribile. Baley aveva sentito parlare delle ombre, naturalmente, e sapeva che cos'erano, ma nella indiretta luce diffusa delle Città non ne era mai stato particolarmente conscio.
Sapeva di avere il sole solariano dietro di lui. Stava attento a non guardarlo, ma sapeva che c'era.
Lo spazio era grande, lo spazio era solitario, eppure scoprì che lo attirava. Con la mente immaginava se stesso che camminava a grandi passi sulla superficie di un mondo con migliaia di chilometri e anni luce di spazio tutt'intorno a lui.
Perché avrebbe dovuto provare attrazione per questa sensazione di solitudine? Non voleva la solitudine. Voleva la Terra, e il calore e la compagnia delle Città piene zeppe di uomini.
L'immagine l'abbandonò. Cercò di rimettere insieme New York nella sua mente, tutto il suo rumore e la sua pienezza, e scoprì di rimanere solo conscio del quieto brivido dell'aria che si muoveva sulla superficie di Solaria.
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