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Jack Vance: Le case di Iszm

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Jack Vance Le case di Iszm

Le case di Iszm: краткое содержание, описание и аннотация

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Che cosa darebbero gli architetti, gli urbanisti, i pianificatori, gli uomini politici per avere una delle case che si seminano, che nascono e crescono come una pianta qualsiasi? E chi avesse in esclusione i semi di una simile pianta, quale gigantesca speculazione edilizia potrebbe organizzare? Su questo tema così attuale per noi, Jack Vance ha costruito un piacevole e movimentato romanzo, in cui le straordinarie case di Iszm sono oggetto di una guerra segreta fra i desperados di mezza galassia.

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Vide la morte avvicinarsi, scivolando come il crepuscolo attraverso il tramonto della sua vita… Poi percepì un moto brusco, discordante: qualcosa di verde esplose fra il rosso e il giallo… e Farr si ritrovò ancora vivo.

Un dottore era chino su di lui, con una siringa in mano. — Ce l’ha fatta per un miracolo — disse, mentre le pietose tenebre dell’incoscienza inghiottivano Farr.

— Chi è? — domandò il poliziotto.

Il barista lanciò un’occhiata scettica a Farr: — Ha detto di chiamare Penche.

— Penche! K. Penche?

— Ha detto così.

— Be’, chiamiamolo. Alla peggio, ci farà una sfuriata.

Il barista andò allo schermo, mentre il poliziotto restava col dottore ancora chino su Farr.

— Che cosa gli è successo? — domandò.

— Non è facile stabilirlo — rispose il dottore scrollando le spalle. — Cose di donne… Ci sono tanti sistemi per liberarsi di un uomo, al giorno d’oggi.

— Quella ferita alla testa…

Il dottore esaminò il cuoio capelluto di Farr. — No, è una vecchia ferita. È stato colpito alla nuca. Ecco il segno.

— Penche dice che viene subito — riferì in quella il barista.

Tutti fissarono Farr con rispetto.

Entrarono nel bar due barellieri, e il medico si alzò: — È arrivata l’ambulanza.

Gli infermieri deposero la barella e vi fecero scivolare Farr, legandovelo. Poi si avviarono, seguiti dal barista. — Dove lo portate? Devo dirlo a Penche.

— Lo troverà all’accettazione dell’ospedale di Long Beach.

Penche arrivò tre minuti dopo che l’ambulanza era partita. — Dov’è? — furono le sue prime parole.

— Siete il signor Penche? — domandò rispettosamente il barista.

— Certo che è lui — asserì il poliziotto.

— Be’, troverete il vostro amico all’accettazione dell’ospedale di Long Beach.

— Informatevi di quello che è successo qui — ordinò Penche a uno degli uomini del suo seguito, prima di lasciare il bar.

Gli infermieri spogliarono Farr e si stupirono al vedere la lana di metallo che gli avvolgeva il braccio e la spalla.

— Che cos’è?

— Qualunque cosa sia, bisogna toglierla.

La tolsero, lavarono Farr con gas antisettici, gli propinarono alcune iniezioni, e infine lo trasferirono in una stanza tranquilla.

— Quando lo si potrà portare via di qui? — s’informò Penche.

— Un momento, signor Penche — disse l’impiegato.

Penche aspettò che l’altro prendesse informazioni. — Be’, è fuori pericolo.

— Lo si può trasportare?

— È privo di sensi, ma il dottore dice che si può.

— Fatelo accompagnare a casa mia con un’ambulanza, per favore.

— Benissimo, signor Penche. E… vi assumete voi la responsabilità?

— Naturalmente. Mandatemi il conto.

La casa di Penche, a Signal Hill, era un tipo di lusso Classe AA Modello 4, cioè l’equivalente di una casa terrestre da trentamila dollari. Penche vendeva quattro differenti tipi di case di Classe AA a diecimila dollari, oltre a quelle di Classe A, B e BB. Naturalmente gli Iszici coltivavano case molto più lussuose e complesse, per loro uso, case dotate di baccelli intercomunicanti, pareti che emanavano luci fluorescenti, tubazioni da cui uscivano nettare, olio e acqua, con atmosfera sovraccarica di ossigeno, con baccelli fototropici e fotofobici, baccelli che contenevano piscine, che producevano noci e cristalli di zucchero e succulente cialde. Però non esportavano case di questo genere, come non esportavano quelle da tre o quattro baccelli per gente che poteva spender poco. Infatti, sia le une che le altre avevano un costo di imballaggio e spedizione uguale, e non avrebbero reso l’utile adeguato.

Un miliardo almeno di Terrestri non aveva casa; nel Nord della Cina, gli abitanti si ammucchiavano nelle grotte, i Dravidiani vivevano in capanne di fango, gli Americani e gli Europei occupavano cadenti fabbricati suddivisi in appartamenti. Penche trovava che la situazione era deplorevole, e voleva porvi rimedio, ma alla realizzazione del suo progetto si frapponeva un ostacolo insormontabile: quella gente non era in grado di sborsare migliaia di dollari per case di Classe AA, A, BB e B, per quanto Penche fosse più che disposto a vendergliele. Aveva quindi bisogno di case a tre, quattro, cinque baccelli, che gli Iszici si rifiutavano di esportare.

Il problema aveva tuttavia una soluzione ovvia: organizzare un’incursione su Iszm per rubare un albero femmina. Accuratamente coltivato, un albero di quella specie poteva dare migliaia di semi all’anno, e da metà di questi semi sarebbero cresciuti altrettanti alberi femmina. Nel giro di pochi anni Penche avrebbe guadagnato migliaia di milioni.

A molta gente, la differenza fra dieci milioni all’anno e mille milioni all’anno pareva irrilevante. Ma Penche contava il guadagno in unità di milioni, e il denaro non rappresentava per lui un mezzo con cui poter acquistare, ma energia, spinta dinamica, capacità di persuasione e potenza. Per sé, spendeva pochissimo, e conduceva una vita quasi austera: abitava, per reclamizzare i suoi prodotti, in una casa di Classe AA su Signal Hill, quando avrebbe potuto benissimo vivere in una delle isole celesti che giravano in orbita attorno alla Terra; avrebbe potuto adornare la sua tavola di cibi rari ed esotici, di preziosi vini e rari liquori provenienti dal più lontani pianeti; avrebbe potuto farsi un harem quale mai nessun sultano aveva neppure sognato. Invece, Penche mangiava bistecche e beveva caffè. Era scapolo, e indulgeva ai piaceri solo nei rari casi in cui gli affari gli concedevano un po’ di respiro. Come certi uomini di talento che sono privi di orecchio musicale, così Penche era sordo agli allettamenti della civiltà.

Riconosceva le sue manchevolezze, e talvolta ne provava rammarico, e questa sua incapacità di godere la vita lo faceva infuriare. Ma per lo più, K. Penche si limitava a essere serio e sardonico. Altri uomini avrebbero potuto cedere alle lusinghe, alle belle parole, ma Penche no, e si serviva di questa sua incapacità come un carpentiere si serve di un martello, senza curarsi della natura intrinseca dell’utensile. Osservava e agiva senza illusioni né pregiudizi, e questa era forse la sua forza più grande, lo spietato occhio interiore che giudicava tanto lui che il mondo esteriore con la stessa inflessibile obiettività.

Quando l’ambulanza atterrò sul prato, Penche era nel suo studio. Uscì sul terrazzo e stette a guardare i barellieri che reggevano la barella. Con quella voce roca e profonda che colpiva tutti come un urlo, domandò: — È in sé?

— Comincia a riprendere conoscenza, signore.

— Portatelo su.

12

Aile Farr si svegliò in un baccello con le pareti color giallo polvere, e il soffitto a volta scuro su cui sporgevano sottili venature. Sollevò la testa per guardarsi intorno e vide che i mobili erano scuri e semplici: qualche sedia, una poltrona, un tavolo ingombro di carte, un paio di modellini di case e un’antica credenza spagnola.

Un uomo coi capelli crespi, la testa grossa e gli occhi penetranti, si chinò su di lui. Indossava un camice bianco e odorava di antisettici: era un dottore.

Dietro a lui, c’era K. Penche. Era alto e grosso, ma non quanto Farr si era immaginato vedendone l’immagine sullo schermo. Attraversò la stanza lentamente, e si chinò su di lui.

Qualcosa si destò nella mente di Farr, l’aria gli riempì la gola, le sue corde vocali vibrarono; la bocca, la lingua, i denti e il palato modellarono le parole. Farr le ascoltò, stupefatto.

— Ho l’albero.

Penche assentì. — Dove?

Farr lo guardò senza capire.

— Come avete fatto a portarlo via da Iszm? — domandò ancora Penche.

— Non lo so — Farr si drizzò appoggiandosi sul gomito, e si passò una mano sul mento. — Non so quel che ho detto. Non ho nessun albero, io.

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