Cinque minuti dopo, passeggiava con apparente noncuranza per Valley Boulevard. Dopo altri cinque minuti aveva individuato la sua ombra : un giovane operaio con il volto inespressivo. “Sono pazzo?” si domandò Farr. “Mi sta venendo la mania di persecuzione?” Per accertarsene, fece un lungo e tortuoso giro: l’operaio continuò a seguirlo.
Farr entrò in un ristorante e chiamò sullo stereoschermo la Squadra Speciale, chiedendo dell’ispettore Kirdy.
Dopo averlo salutato, Kirdy gli assicurò che non aveva ordinato ad alcuno dei suoi uomini di seguirlo. Sembrava molto interessato al racconto di Farr, e gli disse: — Aspettate in linea. Controllo gli altri dipartimenti.
In capo a qualche minuto, Farr vide entrare nel ristorante l’operaio che, con l’aria più naturale di questo mondo, sedette in disparte e ordinò un caffè.
— Noi della polizia non c’entriamo — disse Kirdy quando fu tornato. — Forse si tratta di qualche agenzia privata.
— Non ci si può far niente? — domandò Farr seccato.
— Vi hanno dato fastidio?
— No.
— In questo caso, non possiamo intervenire. Scendete in un condotto così li seminerete.
— Ho già provato due volte, ma è stato inutile.
Kirdy rimase sorpreso. — Vorrei che mi dicessero come hanno fatto… Noi non pediniamo più gli individui sospetti perché grazie alla sotterranea riescono sempre a sfuggirci.
— Proverò ancora una volta — disse Farr. — Poi ci sarà da divertirsi.
Uscì dal ristorante, e l’operaio, ingollato in fretta il caffè, gli tenne dietro.
Farr scivolò in un condotto, aspettò, ma l’operaio non lo seguì. Allora chiamò una vettura e, dopo essersi accertato che non c’era nessuno in vista, indicò sul quadrante Ventura. La vetturetta si avviò; era davvero inconcepibile che riuscissero a seguirlo attraverso la sotterranea.
A Ventura, la sua ombra era una massaia, molto carina, che pareva occupata a far spese.
Farr balzò in un altro condotto, e si diresse a Long Beach. Qui ritrovò l’uomo in grigio che aveva già attirato la sua attenzione a Signal Hill. Quando Farr gli si avvicinò, quello lo fissò imperturbabile, con una espressione che sembrava dire: “Cosa vuoi?”.
Signal Hill. In fondo distava solo un paio di miglia. Non era meglio, forse, andare da K. Penche?
No!
Farr sedette a un caffè all’aperto e ordinò un panino. L’uomo in grigio andò a sedersi poco lontano, e chiese del tè ghiacciato. Farr avrebbe voluto affrontarlo e fargli dire la verità, anche con la forza… ma si trattenne, perché la faccenda poteva prendere una brutta piega. Che cosa ne avrebbe ricavato, finendo in prigione? Era Penche il responsabile di quella persecuzione? Farr scartò l’idea, per quanto con riluttanza. L’uomo di Penche stava allontanandosi dal banco dell’albergo quando lui era uscito. Non poteva aver fatto in tempo a seguirlo o a diramare l’allarme.
E allora, chi? Omon Bozhd?
Farr sedeva rigido, poi scoppiò in una stridula risata, facendo voltare la gente. L’uomo in grigio gli lanciò un’occhiata di cauta disapprovazione. Farr continuò a ridacchiare, per sfogare la tensione. Si trattava di una cosa talmente semplice che avrebbe dovuto pensarci prima!
In cielo, a cinque o sei miglia d’altezza, doveva librarsi un battello aereo iszico, con un visore sensibile e una radio. Dovunque Farr andasse, il marchio irradiante che gli avevano impresso sulla spalla rivelava la sua posizione. Sul visore, Farr era chiaramente distinguibile, come un faro.
Andò a chiamare Kirdy, e quando gli ebbe spiegato di che si trattava, l’ispettore rispose: — Avevo già sentito parlare di questa cosa. A quanto pare funziona.
— Altroché, se funziona! — convenne Farr. — C’è modo di schermare le radiazioni?
— Aspettate. — Dopo cinque minuti, Kirdy riapparve sullo schermo. — Restate lì. Manderò un uomo con uno schermo.
Quando l’agente arrivò, Farr si recò nella toletta e avvolse uno strato di lana di metallo intorno alla spalla e al petto.
— E adesso — commentò torvo fra sé — staremo a vedere!
L’uomo in grigio lo seguì con aria noncurante fino al più vicino condotto della sotterranea. Farr si fece portare a Santa Monica. Risalì alla superficie alla stazione di Ocean Avenue, e si diresse verso nordest lungo Whilshire Boulevard, e poi tornò indietro verso Beverly Hills. Era solo. Nessuno lo seguiva. Farr ridacchiò soddisfatto, immaginando la delusione dell’Iszico addetto al visore.
Entrò al Club del Capricorno, un locale di dubbia fama, in cui aleggiava un gradevole odore vecchiotto di segatura, cera e birra. Si diresse allo stereoschermo e chiamò l’Imperador. Sì, c’era un messaggio per lui. L’impiegato inserì il nastro registrato nell’apparecchio, e Farr poté vedere per la seconda volta il viso massiccio e sardonico di Penche. La sua voce roca e profonda aveva un tono conciliante, e pareva che parlasse dopo aver scelto e soppesato con cura le parole. — Vorrei vedervi al più presto, se non vi spiace, signor Farr. Ci rendiamo conto ambedue che occorre discrezione. Sono certo che la vostra visita sarà utile tanto a voi quanto a me. Vi aspetto.
Lo schermo si offuscò, poi ricomparve, il viso dell’impiegato. — Devo cancellare o registrare, signor Farr?
— Cancellate. — Farr uscì dalla cabina e andò a mettersi in fondo al bar. — Che cosa volete? — domandò il barista.
— Vienna Stadtbrau — ordinò Farr.
Il barista girò una grande ruota di quercia ornata di tralci e festonata di vivaci etichette. Centoventi posizioni della ruota corrispondevano ad altrettanti depositi di vini, liquori e bevande varie. Spinse una leva e una bottiglia scura scivolò fuori dal dispensatore. Il barista versò il contenuto della bottiglia in un bicchiere, spingendolo davanti a Farr.
Questi bevve un sorso e si rilassò, passandosi una mano sulla fronte. Era profondamente turbato. Tutto faceva credere che l’invito di Penche fosse plausibilmente logico. In fin dei conti, pensò stancamente, non sarebbe meglio… Ma subito scacciò l’idea. Era davvero stupefacente come quell’impulso tornasse sotto i più diversi aspetti. Era difficile prevederli e prevenirli tutti, a meno di proibirsi categoricamente di pensare a Penche; ma così facendo doveva ammettere di limitare la propria libertà d’azione. D’altra parte, com’era possibile pensare quando non si era in grado di distinguere fra un insensato impulso del subcosciente e il buonsenso?
Farr ordinò dell’altra bina. Il barista, un tipo basso, con gli occhi sporgenti e un paio di baffetti sottili, si affrettò a servirlo. Farr bevve e tornò ai propri pensieri. Si trattava di un problema psicologico molto interessante, che, se le circostanze fossero state diverse, sarebbe stato divertente risolvere; ma lo toccava troppo da vicino. Cercò allora di ragionare con quell’impulso irrazionale: “Che cosa ci guadagno ad andare da Penche?” Penche aveva alluso a un guadagno. Evidentemente pensava che Farr avesse qualcosa di cui desiderava venire in possesso. Che cosa? Trattandosi di Penche, la risposta non poteva essere che una sola: una casa femmina.
Ma lui non possedeva case femmine, quindi non avrebbe avuto niente da guadagnare andando da Penche.
Tuttavia questo ragionamento non gli diede alcuna soddisfazione. Il sillogismo era troppo ovvio, tanto che dubitava di aver semplificato eccessivamente la questione. Non si poteva dimenticare che gli Iszici recitavano una parte di primo piano in tutta la faccenda. Probabilmente, anche loro erano convinti che lui avesse con sé una casa femmina, e dal momento che avevano fatto di tutto per seguirlo, ignoravano dove e quando l’avrebbe congegnata.
Era altrettanto logico supporre che Penche non voleva che essi venissero a saperlo. Lui era in grado di coltivare case che gli costavano venti o trenta dollari l’una e le rivendeva, se così voleva, anche a duemila dollari. Poteva diventare l’uomo più ricco della Terra, addirittura dell’Universo. I mogol dell’antica India, gli arricchiti dell’epoca vittoriana, i baroni del petrolio, i sindaci paneurasiani potevano andarsi a nascondere, al confronto.
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