Hal Clement - Nati dall'abisso
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- Название:Nati dall'abisso
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- Год:1976
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Fu Joey a metter fine a quella scena. Aveva ancora in mano la tavoletta e si affrettò a scrivere a stampatello, con le lettere più grandi che potevano entrarci: «LO STAI UCCIDENDO!»
Accostò la tavoletta all’oblò, in modo che Marie non potesse vedere praticamente altro.
Occorsero alcuni secondi, ma all’improvviso, lei tornò in sé e mollò le pinze. Bert era purpureo in viso, e aveva perduto i sensi; il dottore gli afferrò il polso: pensai che lo facesse per sentire se era ancora vivo, ma in realtà se lo rimorchiò semplicemente dietro. I due sparirono nella sala operatoria.
Esitai per qualche secondo, senza saper decidere cosa fosse più importante, poi andai loro dietro. La ragazza ed i suoi amici mi seguirono; la guida di Marie restò fuori, con il sommergibile. Joey, sebbene in un primo momento avesse l’aria di voler venire con noi, cambiò idea.
In sala operatoria, Bert venne prontamente legato sul tavolo, e il dottore si mise all’opera.
A stretto rigore non era un medico: questo lo capivo anch’io. Non possono esserci medici in una popolazione di poche migliaia di persone, da tre o quattro generazioni isolata dalla corrente principale della scienza umana. Tuttavia era un tecnico abilissimo, e per fortuna si trovava nel suo campo. Conosceva alla perfezione la macchina cuore-polmoni, e conosceva tutte le difficoltà del sistema respiratorio e circolatorio. L’interferenza sul riflesso della tosse, necessaria per sopravvivere in quella pressione, aveva prodotto qualche debolezza. Nella sala c’erano i comandi della macchina e degli apparecchi ausiliari, presumibilmente sincronizzati su quelli esterni. Evidentemente, la depressurizzazione non costituiva l’unico scopo dell’impianto.
In meno di trenta secondi, il tecnico aveva collegato Bert alla macchina, e il colorito stava ritornando normale. Poi, con maggior calma, altri strumenti cominciarono a scrutare e a sondare dentro la gola.
A quanto pareva, le lesioni non erano serie, sebbene l’esterno del collo cominciasse a cambiare colore, diventando un enorme ematoma. In meno di cinque minuti il dottore (lo chiamerò così, date le circostanze) ritirò gli strumenti e con una siringa ipodermica iniettò qualcosa nel braccio del suo paziente. Doveva trattarsi di uno stimolante, perché Bert aprì gli occhi quasi subito.
Gli bastarono pochi secondi per orientarsi. Poi fissò lo sguardo su di me e arrossì, veramente. Era ancora un po’ confuso, perché fece per parlare. Il dolore al petto, quando mise sotto pressione i polmoni saturi di liquido, lo richiamò alla realtà. Si guardò intorno, facendo il gesto di scrivere. Il dottore non si scompose, perciò andai io a prendere la tavoletta: ce l’aveva ancora Joey.
Non dovetti interrompere una conversazione, per prenderla. Joey non stava scrivendo, e Marie non stava parlando.
A quanto pareva non era stato detto nulla, durante i momenti drammatici in sala operatoria: avremmo udito la voce di Marie anche di lì, e le tre parole che Joey aveva scritto sulla tavoletta alcuni minuti prima erano ancora lì. Marie lo guardava attraverso l’oblò, e lui guardava dappertutto, ma non lei. Non indugiai per effettuare un’analisi. Mi limitai a prendere la tavoletta dalle mani di Joey e tornai al tavolo operatorio.
Il dottore richiamò l’attenzione di Bert sui tubi che lo collegavano alla macchina, ma non cercò di impedirgli di scrivere. Bert annuì, per spiegare che aveva compreso l’avvertimento, e continuò a lavorare di stilo. Scrisse brevemente, e mi porse la tavoletta.
«Mi dispiace, ma quando mi danno scacco matto me ne rendo conto. Spero che tu abbia maggior fortuna, anche se adesso, dato che lei sa che Joey è vivo, non ci scommetterei. Dille che non mi ha ucciso, se credi che questa possibilità la turbi. Io preferisco non rivederla più.»
Era un messaggio rivelatore. All’improvviso capii perché Bert aveva manomesso la verità, perché aveva tenuto nascosto a Marie la presenza di Joey, perché aveva deciso di tornare alla superficie così all’improvviso, perché non era stato completamente franco con me… e anche perché il Comitato locale era stato tanto riluttante a lasciarci partire entrambi.
E mi resi conto che non ero in condizioni di criticarlo, per questo. Non potevo dire contro di lui una sola parola che non fosse valida anche nei miei confronti. La sola ragione per cui non avevo fatto lo stesso, con la stessa motivazione, era che non ero stato in condizioni di farlo.
Non potevo biasimarlo, e neppure criticarlo. Ho i miei difetti, ma non sono tanto ipocrita. Potevo provare pena per lui: come aveva detto, le sue possibilità erano sfumate.
Marie poteva forse rendersi conto che, per quanto la riguardava, Joey era un caso disperato, anche dopo aver scoperto che era vivo. In tal caso, forse avrebbe scelto me. Ma dopo quelle ultime settimane e le scoperte degli ultimi minuti, non avrebbe voluto saperne di Bert, mai e poi mai.
CAPITOLO 24
Per quel giorno, comunque, le sorprese non erano finite. Mentre varcavo l’enorme valvola e diventavo visibile dalla galleria esterna, sentii la voce di Marie. Era tagliente, ma nonostante questo era pesante come una clava.
«Dove hai preso l’idea che costoro non assimilassero l’ossigeno attraverso i polmoni? Se ho ucciso Bert non ne sono molto pentita, ma la colpa è tua.»
Nonostante tutto, avevo avuto il tempo di prevedere quella domanda, ma non la possibilità di trovare una buona risposta. Mentre il dottore lavorava su Bert, io avevo frugato nella mia memoria. Era abbastanza evidente che la mia teoria del cibo ricco d’ossigeno era finita sotto l’uscio, ma non riuscivo ancora a trovarne una migliore.
Potevo soltanto ripetere quella teoria, e le ragioni che mi avevano spinto ad adottarla. Assicurai Marie che non aveva ucciso Bert. Il mio ragionamento, stranamente, non appariva impeccabile, messo per iscritto, come mi era apparso quando l’avevo elaborato nella mia mente… a parte il fatto che adesso era chiaramente errato. Nonostante questo, Marie parve calmarsi, mentre io scrivevo una pagina dopo l’altra, gliele facevo leggere, le cancellavo e proseguivo. Forse le pause forzate servirono a qualcosa.
«Ammetto che prima mi avevi convinta,» disse lei, quando ebbi finito, «e neppure io riesco a vedere la lacuna. Joey, nel periodo che hai trascorso qui, hai scoperto quanto basta per dirci dov’è l’errore in questa idea?»
«Credo di sì,» scrisse lui. Si interruppe e si mise davanti all’oblò in modo che Marie potesse leggere mentre lui tracciava le parole. Io mi portai a nuoto un po’ sopra di lui, e feci altrettanto.
«L’errore era naturale. Avevate ragione, osservando che noi non respiravamo, nel senso che non vi erano movimenti del torace. Ma nonostante questo, noi riceviamo l’ossigeno da questo liquido. È meraviglioso. Si può dire che abbia una struttura molecolare vagamente paragonabile all’emoglobina, in quanto lega alla propria superficie le molecole di ossigeno; non so quante, ma in numero elevato. Non ha i gruppi della porfirina, come l’emoglobina: si sono dati parecchio da fare per renderlo trasparente alla luce visibile. Non saprei disegnare a memoria la formula strutturale. Ma l’ho vista. È perfettamente comprensibile.
«Ora riflettete un momento. L’ossigeno liquido ha una concentrazione molecolare circa quattromila volte superiore a quella del gas che respiriamo normalmente. La ragione per cui dobbiamo respirare è che la diffusione, alle concentrazioni presenti al livello del mare, non riesce a far passare attraverso la trachea abbastanza ossigeno per tenere in vita un animale grosso quanto un essere umano. Naturalmente, non si può vivere nell’ossigeno liquido, a causa dei problemi di temperatura. Tuttavia, in questo liquido la concentrazione dell’ossigeno quasi libero è molto, molto superiore a quella nell’atmosfera… inferiore di gran lunga a quella dell’ossigeno liquido, ma comunque altissima. C’era un altro problema: dacché c’erano, hanno dato al nucleo di questa molecola una struttura capace di spezzarsi endotermicamente a temperature superiori a poche centinaia di gradi. Perciò, un fuoco tenderà ad estinguersi. Ma è una questione secondaria, per quanto riguarda la respirazione.
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