Graziose bollicine trasparenti, munite di tentacoli appena visibili, passavano quasi alla superficie. Alvin immerse la mano e cercò di afferrarne una. Subito la ritirò con un gemito. Era stato punto.
Un giorno, forse tra anni, forse tra secoli, le piccolissime meduse si sarebbero riunite e il gigantesco polpo sarebbe rinato con tutti i suoi ricordi.
Alvin si chiese come avrebbe accolto le scoperte che lui aveva fatto; forse non sarebbe rimasto contento di apprendere la verità sul Maestro. Si sarebbe ribellato all’idea che tutti quei millenni di paziente attesa erano stati inutili.
Inutili davvero, poi? Per quanto delusa potesse restare la creatura, la sua lunga attesa avrebbe avuto una ricompensa. Quasi per miracolo, il polpo aveva salvato dall’oblio fatti che sarebbero rimasti sconosciuti per sempre.
Ora il povero essere poteva riposare, e il suo credo poteva prendere la via di tante altre fedi che un tempo si erano credute eterne.
Hilvar e Alvin tornarono in silenzio verso l’astronave; ben presto la fortezza fu di nuovo un’ombra scura tra le colline, poi si confuse nel vasto panorama di Lys.
Alvin non fece nulla per fermare la macchina. Continuarono a innalzarsi finché tutta Lys apparve sotto di loro come una grande isola verde perduta in un mare ocra. Alvin non era mai salito così in alto; quando si arrestarono, tutto l’emisfero terrestre era visibile. Lys adesso non era che una macchia color smeraldo contro il deserto, ma lontano, lungo la curva del globo, qualcosa scintillava come una pietra preziosa. Così per la prima volta, Hilvar vide Diaspar.
Sedettero a lungo in silenzio osservando la Terra girare sotto di loro. Alvin avrebbe voluto mostrare il mondo come lo vedeva ora ai capi di Lys e di Diaspar.
«Hilvar» chiese a un tratto «tu mi approvi?»
La domanda sorprese Hilvar che non sospettava quali improvvisi dubbi turbassero a volte il suo amico, né sapeva dell’incontro col Computer Centrale e del nuovo stato d’animo che quell’incontro aveva suscitato in Alvin.
Rispondere non era facile; come Khedron, Hilvar sentiva che la sua personalità veniva sommersa, succhiata ineluttabilmente nel vortice che Alvin si lasciava alle spalle.
«Credo che tu abbia ragione» disse lentamente. «I nostri due popoli sono rimasti divisi troppo tempo.» Questo, pensò, era vero, anche se la sua risposta era stata influenzata dai sentimenti. Alvin però continuava a essere preoccupato.
«C’è un. problema che mi assilla, Hilvar, le nostre vite hanno una durata ben diversa…» Non disse altro, ma ciascuno di loro comprese ciò che l’altro stava pensando.
«Lo so… Ma il problema si risolverà da solo, col tempo, quando i nostri popoli si metteranno in contatto. Non possiamo essere entrambi nel giusto.
La nostra vita potrebbe essere troppo corta, e la vostra di certo è troppo lunga. Ci dev’essere un compromesso.»
Chissà, pensava Alvin; certo quella speranza era un conforto per il futuro, ma le epoche di transizione sarebbero state molto dolorose. Ricordò le parole amare di Seranis: «Mio figlio e io saremo morti da secoli e tu sarai ancora un giovane». Bene, avrebbe accettato le condizioni. Anche a Diaspar l’amicizia sottostava alla stessa ombra. Che si trattasse di cento anni, o di milioni, non aveva la minima importanza.
Alvin sapeva, con una certezza che andava al di là di ogni logica, che per il benessere della razza era necessaria l’unione delle due culture. In un caso simile la felicità individuale non ha nessuna importanza. Per un attimo, Alvin vide l’umanità non come uno sfondo vivente alla sua esistenza, ma come qualcosa di più, e accettò senza esitare l’infelicità che, un giorno, la scelta gli avrebbe causato.
Sotto di loro, il mondo girava incessantemente sul proprio asse. Hilvar non parlava, per non disturbare le meditazioni dell’amico. Poco dopo Alvin ruppe il silenzio.
«Quando ho lasciato Diaspar la prima volta» disse «non sapevo cos’avrei trovato. Una volta Lys mi avrebbe soddisfatto… molto più che soddisfatto… Ora però ogni cosa sulla Terra mi sembra priva di importanza. Ogni scoperta che ho fatto ha sollevato questioni più grandi e aperto orizzonti più vasti. Mi domando come potrà finire…»
Hilvar non aveva mai visto Alvin tanto pensoso, e non volle interrompere il soliloquio. In quegli ultimi minuti aveva imparato a conoscere l’amico assai più profondamente.
«Il robot mi ha detto che questa nave può raggiungere i Sette Soli in meno di un giorno. Debbo andarci, Hilvar?»
«Credi che potrei fermarti?»
Alvin sorrise. «Non è una risposta. Chi può dire cosa ci sia là nello spazio? Gli Invasori possono aver lasciato l’Universo, ma potrebbero esserci altre intelligenze nemiche dell’uomo.»
«Perché mai? È una questione che i nostri filosofi discutono da sempre.
Una specie veramente intelligente dovrebbe essere socievole.»
«E gli Invasori, allora?»
«D’accordo, sono un enigma. Se erano davvero malvagi, a quest’ora dovrebbero essersi autodistrutti. Ma se anche ci fossero ancora…» Hilvar indicò il globo, con le sue immense zone deserte. «Una volta avevamo un Impero. Cosa abbiamo oggi che possano invidiarci?»
Alvin era un po’ sorpreso che qualcun altro condividesse quel punto di vista.
«Anche la tua gente pensa così?»
«Solo una minoranza. In generale nessuno pensa più agli Invasori.
L’uomo medio è convinto che se avessero voluto distruggere davvero la Terra, l’avrebbero già fatto. E ora nessuno li teme più.»
«A Diaspar le cose stanno diversamente. I miei concittadini sono dei pavidi, terrorizzati all’idea di lasciare la loro città. Non so cosa accadrà quando scopriranno che posseggo un’astronave. A quest’ora Jeserac avrà informato il Consiglio. Sarei curioso di sapere come l’hanno presa.»
«Te lo dico io. Si stanno preparando a ricevere la prima delegazione da Lys. Me l’ha detto Seranis un momento fa.»
Alvin fissò lo schermo. In una sola occhiata poteva abbracciare la distanza tra Lys e Diaspar; uno dei suoi scopi era stato raggiunto, e adesso gli sembrava una cosa di nessun conto. Eppure era felice; adesso, le infinite epoche di sterile isolamento erano giunte al termine.
La certezza di aver compiuto quella che un tempo era stata la sua missione principale tolse ad Alvin gli ultimi dubbi. Alla Terra aveva provveduto, ora davanti a lui si apriva la via per un’altra avventura, l’ultima forse, ma certo la più grande.
«Vieni con me, Hilvar?»
Hilvar lo guardò con aria risoluta.
«Non hai bisogno di chiedermelo, Alvin. Ho detto a Seranis e ai miei amici che partivamo insieme… circa un’ora fa.»
Quando Alvin diede al robot le ultime istruzioni, l’astronave era quasi ferma e la Terra era forse millecinquecento chilometri al di sotto. Aveva un’aria poco attraente. Alvin si chiese quante navi spaziali, nel passato, si fossero fermate un poco a quella distanza e avessero poi deciso di atterrare altrove.
Ci fu una lunga pausa, mentre il robot provava comandi e circuiti che non erano stati usati da interi cicli cosmici. Poi si udì un leggero sibilo, che salì rapidamente da un’ottava all’altra fino a raggiungere il limite dell’udito.
Non si avvertì alcun cambiamento di posizione, ma improvvisamente lo schermo inquadrò le stelle. La Terra riapparve, e scomparve; poi tornò ad apparire, in una posizione leggermente diversa. Lo scafo stava girando nello spazio, come l’ago di una bussola alla ricerca del nord. Per minuti il cielo continuò a rotolare attorno a loro, poi lo scafo smise il movimento rotatorio e divenne un gigantesco proiettile puntato verso le stelle.
Al centro dello schermo il cerchio dei Sette Soli splendeva con le sue tinte da arcobaleno. Un po’ della Terra era ancora visibile, mentre le ombre si insinuavano gradatamente nell’oro e nel rosso del tramonto. Alvin sapeva che qualcosa stava per accadere, qualcosa al di là di ogni sua immaginazione. Aspettò, aggrappato al sedile, mentre i secondi passavano e i Sette Soli scintillavano sullo schermo.
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