Khedron era soddisfatto di come stavano le cose. Certo poteva sovvertire l’ordine di tanto in tanto, ma solo un poco. Era un critico, non un rivoluzionario. Mirava a creare qualche mulinello nella placida corrente del tempo, non a deviarne il corso. Lo spirito avventuroso era stato eliminato da lui come da qualsiasi altro cittadino di Diaspar. Tuttavia, il Buffone possedeva ancora una scintilla di quella curiosità che un tempo era stata la dote suprema dell’Uomo, ed era ancora preparato a correre un rischio.
Osservò Alvin, e cercò di ricordare la sua propria giovinezza. E tutti i sogni che aveva fatto cinquecento anni prima. Ogni e qualsiasi momento del suo passato era ancora perfettamente chiaro nella sua memoria. Quella vita, e tutte le altre precedenti, erano lì tutte allineate davanti ai suoi occhi, come palline infilate in una corda. Poteva riesaminarle a suo piacimento.
Le primissime vite gli sembravano ormai molto strane. Lo schema-base poteva essere identico, ma il peso delle esperienze lo separava da queste vite per sempre. Volendo, il giorno in cui fosse rientrato nella Sala della Creazione per dormire fino a quando la Città non lo avesse richiamato, avrebbe potuto cancellare dalla mente il ricordo di quelle primissime incarnazioni. Ma sarebbe stata una specie di morte, e lui non era ancora pronto per una cosa del genere. Voleva raccogliere tutto ciò che la vita poteva offrire; come un nautilus, voleva pazientemente aggiungere nuove celle alla spirale della conchiglia in lenta espansione.
In gioventù non era stato molto diverso dai suoi compagni. Soltanto quando aveva raggiunto l’età dei ricordi latenti gli era tornato alla mente il ruolo cui era stato destinato molto tempo prima. A volte provava risentimento verso l’intelligenza che aveva concepito Diaspar e che poteva ancora, dopo tutte le epoche trascorse, farlo muovere come una marionetta sul palcoscenico. Ora, forse, si presentava la possibilità di prendersi la vendetta. Era comparso un nuovo attore che poteva far calare per sempre il sipario su una commedia di cui erano già stati rappresentati troppi atti.
La simpatia di qualcuno che doveva sentirsi ancora più solo di lui, la noia prodotta da millenni di monotonia e ripetizioni, infine un maligno senso dell’umorismo spinsero Khedron all’azione.
«Forse posso aiutarti» disse ad Alvin «forse no. Non voglio darti speranze inutili. Ci troviamo tra mezz’ora nell’intersezione del Raggio 3 con il Cerchio 2. Se proprio non potrò far altro, ti prometto fin d’ora un viaggio molto interessante.»
Alvin arrivò all’appuntamento con dieci minuti di anticipo. Aspettò, impaziente, mentre la strada mobile, a pochi passi da lui, continuava la sua eterna corsa trasportando la popolazione placida e soddisfatta a Diaspar, intenta nelle sue inutili occupazioni. Finalmente scorse in lontananza l’alta figura di Khedron, e un attimo dopo si trovò per la prima volta alla presenza fisica del Buffone. Stavolta non era un’immagine proiettata; si strinsero la mano nell’antichissimo saluto.
Il Buffone sedette su una delle balaustre di marmo e fissò Alvin, con intensa curiosità.
«Chissà se ti rendi conto di quello che chiedi» disse. «Sei veramente convinto che oseresti lasciare la città, ammesso che tu riesca a trovare la maniera di uscire?»
«Certissimo» replicò Alvin spavaldo, ma Khedron colse in quel tono una sfumatura di incertezza.
«Allora lascia che ti dica qualcosa che forse non sai. Vedi quelle due torri?» Khedron indicò le due costruzioni gemelle del Consiglio e della Centrale Energia che si ergevano una di fronte all’altra, separate da uno strapiombo di cinquecento metri. «Supponi per un attimo di gettare un piano perfettamente stabile tra le due torri, un piano non più largo di due spanne.
Te la sentiresti di camminarci sopra?»
Alvin esitò.
«Non so» rispose. «Non vorrei neppure tentare.»
«Sono certo che non riusciresti a farlo. Ti verrebbe il capogiro e cadresti di sotto dopo pochi passi. Eppure, se lo stesso piano fosse sistemato poco al di sopra del livello dei suolo, ci cammineresti sopra con la massima disinvoltura.»
«E questo cosa prova?»
«Un fatto semplicissimo che sto cercando di stabilire. Nei due esperimenti che ti ho descritto, il piano sarebbe esattamente lo stesso. Uno di quei robot che a volte si incontrano sarebbe in grado di attraversarlo comunque. Noi non possiamo, perché abbiamo paura dell’altezza. Sarà anche un fatto illogico, ma è troppo importante per ignorarlo. Esiste dentro di noi, lo portiamo in noi fin dalla nascita. Allo stesso modo, abbiamo paura dello spazio. Mostra a qualsiasi individuo di Diaspar una via che conduca fuori città, una strada identica a questa che abbiamo davanti, e lui non se la sentirà di percorrerla. Non potrebbe fare a meno di voltarle le spalle, come tu volteresti le spalle inorridito trovandoti di fronte a un abisso di cinquecento metri.»
«Ma perché?» chiese Alvin. «Ci dev’essere stata un’epoca…»
«Lo so, lo so. Un tempo gli uomini non solo giravano per il mondo, ma avevano addirittura raggiunto le stelle. Qualcosa li ha cambiati e ha dato loro questo istinto che ora portano in sé. Tu credi di essere l’unico a non averlo. Vedremo. Ora ti porterò nella Torre del Consiglio.»
La Torre era una delle costruzioni più grandi della città ed era quasi completamente occupata dalle macchine che regolavano l’esistenza di Diaspar. Quasi in cima c’era la saia dove in rare occasioni il Consiglio si riuniva per discutere qualche questione importante.
L’ampio ingresso li inghiottì e Khedron avanzò nel silenzioso edificio.
Alvin non aveva mai visitato la Torre: nessun regolamento lo vietava, ma Alvin, come tutti, portava un rispetto quasi religioso per il luogo. In un mondo senza divinità, la Torre del Consiglio era la casa che più dava l’idea di un tempio.
Khedron condusse Alvin per corridoi e rampe che, evidentemente, erano state fatte per essere percorse a zigzag. Formavano angoli così acuti che sarebbe stato impossibile reggersi in piedi senza l’opportuno controllo del campo gravitazionale.
Infine giunsero a una porta chiusa che si spalancò silenziosamente davanti a loro per richiudersi subito alle loro spalle. Si trovarono ben presto davanti a un’altra porta. Khedron vi si fermò davanti, e restò immobile ad aspettare. Qualche secondo dopo, una voce chiese: «Come vi chiamate?».
«Sono Khedron, il Buffone. Il mio compagno è Alvin.»
«Perché volete entrare?»
«Semplice curiosità.»
Tra la meraviglia di Alvin, la porta si aprì immediatamente. Il giovane sapeva per esperienza che quando si dava alle macchine una risposta scherzosa si finiva sempre col generare confusione e bisognava ricominciare da capo. La macchina che aveva interrogato Khedron doveva essere molto complicata, molto in su nella gerarchia del Computer Centrale.
Non incontrarono altri ostacoli, ma Alvin sospettò che avessero superato diversi esami senza rendersene conto. Un breve corridoio immetteva in una vastissima sala circolare. Il pavimento della sala restava un poco più basso.
Per un attimo, Alvin restò paralizzato dalla sorpresa. Ai suoi piedi si stendeva tutta Diaspar in miniatura. Gli edifici più alti gli arrivavano circa alla spalla.
Il giovane rimase per un bel pezzo assorto in contemplazione, e solo quando riuscì a scuotersi dedicò un po’ d’attenzione al resto della stanza.
Le pareti erano coperte da uno schema in bianco e nero minutamente dettagliato. La decorazione era assolutamente irregolare, e muovendo in fretta gli occhi si aveva l’impressione che tutte le pareti si mettessero in movimento, senza mai cambiare disegno. Tutt’attorno, a intervalli regolari, c’erano macchine a tastiera, ciascuna munita di un monitor e di un sedile per l’operatore.
Читать дальше