Arthur Clarke - La città e le stelle

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Diaspar, un’immensa metropoli del futuro. Una superciviltà arrivata all’ultimo stadio dello sviluppo. Un pianeta deserto, ostile, «proibito»: è in questo scenario che si muove Alvin, il giovane eroe di questo romanzo che resta fra i più celebri di Clarke. La domanda che lo ossessiona é: come riscoprire l’antico segreto della razza umana? Come uscire dal labirinto sotto vetro e tornare al volo spaziale?

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Quando scoprì che Alvin era scomparso, domandò subito a Jeserac cos’era successo. E Jeserac, dopo un attimo di esitazione, le disse la verità.

Se Alvin non voleva compagnia, la risposta doveva esserle chiara. Il tutore non approvava né disapprovava la relazione. Tutto sommato, Alystra gli piaceva, e lui nutriva la speranza che la ragazza riuscisse a convincere Alvin a conformarsi alla vita della città.

Il fatto che Alvin stesse trascorrendo tutto il suo tempo nella Torre del Consiglio poteva soltanto significare che stava facendo delle ricerche, e questo riuscì a placare le gelosie di Alystra. Ma se i sospetti si erano spenti, la curiosità era aumentata. A volte si rimproverava per aver abbandonato Alvin nella Torre di Loranne, anche sapendo benissimo che se le circostanze si fossero ripetute lei avrebbe fatto esattamente la stessa cosa. Non c’era modo di capire ciò che Alvin stava pensando, si disse, a meno di non scoprire cosa stesse cercando di fare.

Avanzò decisa nel grande atrio, e rimase impressionata, non intimorita, dal grande silenzio che l’aveva avvolta non appena varcata la soglia. Le macchine d’informazione erano allineate lungo la parete opposta, e lei ne scelse una, a caso.

Aspettò che si accendesse il segnale, poi disse: «Sto cercando Alvin. È

in questo edificio. Dove lo posso trovare?».

Anche dopo tutta una vita è impossibile abituarsi alla rapidità con cui una macchina risponde a una domanda normale. Ci sono persone che sanno, o dicono di sapere, come tutto questo avviene, e parlano di «tempo di accesso» e di «spazio d’immagazzinamento», ma la sorpresa data dalla sorprendente rapidità rimane. Una qualsiasi domanda, tra tutte quelle che potevano essere fatte nella città, riceveva normalmente una risposta immediata. Soltanto se venivano richiesti calcoli complessi si doveva aspettare la risposta per una leggera frazione di tempo.

«È con i Monitor» disse la macchina. Non fu di grande aiuto, dato che quel nome non le diceva niente. Nessuna macchina poi dava altre informazioni oltre quella richiesta. Formulare domande alle macchine era un’arte che a volte richiedeva un lungo studio.

«Come lo posso raggiungere?» domandò Alystra. Cos’erano i Monitor lo avrebbe scoperto dopo aver trovato Alvin.

«Non posso dirvelo, a meno che non abbiate il permesso del Consiglio.»

Quello era lo sviluppo più inaspettato e sconcertante. C’erano pochi luoghi in tutta Diaspar ai quali non si potesse accedere liberamente. Inoltre Alystra era certissima che Alvin non aveva ottenuto il permesso del Consiglio. E questo poteva significare soltanto che veniva aiutato da un’autorità posta ancora più in alto.

Il Consiglio governava Diaspar, ma il Consiglio stesso era sottomesso a una forza superiore: all’intelligenza infinita del Computer Centrale. Era difficile considerarlo un’entità vivente, localizzata in un punto, perché era la somma globale di tutte le macchine esistenti nella città. Anche se non era vivo in senso biologico, possedeva almeno tanta intelligenza e sensibilità quanto un essere umano. Doveva sapere ciò che Alvin stava facendo, e, di conseguenza, doveva avergli dato la sua approvazione. In caso contrario, lo avrebbe fermato, o demandato al Consiglio, come la Macchina delle Informazioni aveva fatto con Alystra.

Non c’era ragione di restare. Alystra sapeva che un qualsiasi tentativo per trovare Alvin, anche sapendo con esattezza dov’era la sala dei Monitor, si sarebbe risolto in un fallimento. Le porte non si sarebbero aperte, i corridoi si sarebbero mossi in senso inverso non appena lei avesse tentato di imboccarli, portandola indietro anziché avanti, e i campi elevatori si sarebbero misteriosamente rifiutati di sollevarla da un piano all’altro. Se poi avesse insistito, sarebbe comparso un robot che l’avrebbe gentilmente riaccompagnata in strada, o fatta girare per tutti i corridoi dell’edificio finché non si fosse stancata.

Era di cattivo umore quando uscì dal palazzo. Ed era anche alquanto perplessa. Per la prima volta si rendeva conto che doveva esserci un grosso mistero. Al confronto, tutti i suoi desideri e interessi personali diventavano meschini. Ma non per questo perdevano, per lei, la loro importanza. Non sapeva cosa fare, ma era certa di una cosa. Alvin non era la sola persona cocciuta e ostinata a Diaspar.

8

Alvin girò la manopola e vuotò i circuiti. Per un attimo rimase seduto immobile, gli occhi fissi allo schermo che aveva tenuto occupata la sua mente per tante settimane. Aveva circumnavigato il suo mondo; attraverso lo schermo era passato ogni centimetro quadrato dalla parete esterna di Diaspar. Conosceva la città meglio di ogni altro essere umano, salvo forse Khedron, e adesso sapeva che attraverso quella muraglia non esisteva via d’uscita.

Non era del tutto scoraggiato, però. Sapeva fin dall’inizio che le cose non sarebbero state facili, e che non avrebbe certo trovato quel che cercava al primo tentativo. L’aver esaminato una possibilità rappresentava già qualcosa. Ora poteva passare a occuparsi delle altre.

Si alzò, e si avvicinò all’immagine della città che riempiva quasi tutta la stanza. Era difficile pensare che non fosse un modello plastico, anche sapendo che si trattava di una proiezione ottica di tutto ciò che era conservato nelle celle-memoria da lui esplorate. Quando spostava i comandi del monitor e vagava con le inquadrature per le strade di Diaspar, un punto luminoso si muoveva sulla replica indicando la zona che appariva sullo schermo. Era stata una guida utile durante i primi giorni, poi lui era diventato tanto abile nel disporre le coordinate che non aveva più avuto bisogno del piccolo aiuto. Diaspar si stendeva ai suoi piedi, poteva guardarla dall’alto come un dio; ma lui la vedeva appena, tanto era immerso nelle sue riflessioni.

Se ogni altro tentativo falliva, a lui sarebbe rimasta un’unica soluzione.

Diaspar poteva esser tenuta in perpetua stasi dai circuiti di eternità, fissi sugli schemi stabiliti nelle celle di memoria. Ma questi schemi potevano venire cambiati, e la città sarebbe cambiata di conseguenza.

Sarebbe bastato ridisegnare un tratto di parete esterna in modo da inserirvi una porta, registrare la correzione nelle Banche Memoria e lasciare che la città assumesse una nuova caratteristica.

Alvin ebbe il sospetto che i comandi del pannello che Khedron non gli aveva illustrati riguardassero proprio le alterazioni. Inutile tentare esperimenti. Senza dubbio i comandi che potevano cambiare la struttura della città dovevano essere sigillati e potevano essere azionati solo dall’autorità del Consiglio con l’approvazione del Computer Centrale. Era assurdo sperare che il Consiglio accettasse la sua proposta, anche mettendo in bilancio decadi e forse secoli di paziente attesa. No, meglio scartare addirittura l’idea.

Quasi involontariamente guardò verso l’alto. A volte aveva sognato, fantasticherie che quasi si vergognava di ricordare, di aver riconquistato la signoria dell’aria cui l’uomo aveva da tanto tempo rinunciato. Un tempo le navi spaziali avevano solcato i cieli, tornando cariche di tesori ormai dimenticati al leggendario Porto di Diaspar. Ma il Porto sorgeva oltre i limiti della città, e da tempi immemorabili era stato seppellito dalle sabbie. Alvin ogni tanto sognava che una di quelle macchine volanti si trovasse nascosta in qualche punto di Diaspar, ma non osava sperarlo. Anche nei giorni in cui i piccoli apparecchi personali erano una cosa comune, probabilmente non era permesso usarli entro i limiti della città.

Per un attimo si perse nel suo vecchio sogno. Immaginò di essere il padrone del cielo, e che la Terra si stendesse sotto di lui, invitandolo ad andare dove avesse voluto. Non era il mondo dei suoi tempi quello che vedeva, ma il mondo perduto del passato, con un lussureggiante panorama cosparso di colline, di laghi e di foreste.

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