«Tutti i sistemi funzionano normalmente» disse Hal. «Due minuti all’accensione.»
È strano, pensò Floyd, il fatto che spesso la terminologia permanga più a lungo della tecnologia dalla quale è stata generata. Una accensione era possibile soltanto nei razzi chimici; anche se l’idrogeno, in un propulsore nucleare o al plasma, veniva effettivamente a contatto con l’ossigeno, era di gran lunga troppo caldo per poter bruciare. A quelle temperature, tutti i composti si scindevano nei loro elementi.
I pensieri di lui vagarono altrove, cercando altri esempi. Certe persone — particolarmente quelle anziane — dicevano ancora di inserire la pellicola nella macchina fotografica o di fare il pieno. Persino la frase «tagliare un nastro» veniva ancora udita negli studi di registrazione, sebbene si riferisse a tecnologie superate da due generazioni.
«Un minuto all’accensione.»
Floyd riportò in un lampo i pensieri al presente. Era questo il minuto che contava; per quasi cent’anni, nelle basi di lancio e nei centri di controllo, questi erano stati i sessanta secondi più lunghi che fossero mai esistiti. Innumerevoli volte si erano conclusi con un disastro; ma soltanto i trionfi venivano ricordati. Come si concluderanno i nostri sessanta secondi?
La tentazione di infilare, una volta di più, la mano nella tasca ove si trovava l’attivatore dell’interruttore di disinserimento divenne irresistibile o quasi, sebbene la logica gli dicesse che avrebbe avuto tutto il tempo per rimediare. Se Hal non avesse attuato il programma, si sarebbe trattato di una seccatura… non di un disastro. Il momento realmente critico sarebbe giunto quando avrebbero sorvolato Giove. «Sei… cinque… quattro… tre… due… uno… ACCENSIONE!»
A tutta prima la spinta fu appena percettibile; occorse quasi un minuto perché raggiungesse il massimo, un decimo di g. Ciò nonostante, tutti cominciarono immediatamente a battere le mani, finché Tanya non li invitò con un cenno a smettere. V’erano molti controlli da effettuare; anche se Hal stava facendo del suo meglio, molte cose potevano ugualmente andar male.
L’incastellatura dell’antenna della Discovery — che stava ora sostenendo quasi tutto lo sforzo dell’inerzia della Leonov — non era mai stata progettata per un simile maltrattamento. Il progettistacapo dell’astronave, ormai andato in pensione, aveva giurato che il margine di sicurezza era sufficiente. Ma si sarebbe potuto sbagliare, e inoltre era noto che i materiali diventavano fragili dopo anni nello spazio…
Per giunta i nastri di fibre di carbonio che tenevano insieme le due astronavi potevano non essere stati situati in modo accurato; avrebbero potuto allentarsi o scivolare. E la Discovery sarebbe potuta non essere in grado di apportare la correzione della massa fuori centro, ora che sosteneva un peso di mille tonnellate. Floyd era in grado di immaginare una dozzina di inconvenienti; e lo consolava ben poco il ricordare che era sempre il tredicesimo della serie a verificarsi.
Ma i minuti trascorsero senza che nulla accadesse; l’unica prova del fatto che i propulsori della Discovery funzionavano consisteva nella minima gravità indotta dalla spinta e in una lievissima vibrazione trasmessa attraverso le pareti dell’astronave. Io e Giove continuavano a trovarsi ove erano sempre stati per settimane, ai due lati opposti del cielo.
«Cessazione della spinta tra dieci secondi. Nove… otto… sette… sei… cinque… quattro… tre… due… uno… ORA!»
«Grazie, Hal. Come alla pressione di un pulsante.»
Ecco un altro modo di dire parecchio datato; infatti, da almeno una generazione, i tasti a sfioramento avevano sostituito quasi completamente i pulsanti. Ma non per tutte le applicazioni; nelle situazioni critiche era preferibile disporre di un aggeggio che si muoveva percettibilmente, con un bel clic soddisfacente.
«Lo confermo» disse Vasili. «Non v’è alcuna necessità di correzioni fino a metà traiettoria.»
«Diciamo addio all’affascinante, esotica Io… mondo di sogno degli agenti immobiliari» esclamò Curnow. «Saremo tutti felici di sentire la tua mancanza.»
Questo è molto più tipico del Walter di un tempo, si disse Floyd. In quelle ultime settimane, Curnow era stato stranamente serio, come se avesse avuto un chiodo fisso nella mente. (Ma chi non lo aveva?) Sembrava trascorrere gran parte del suo poco tempo libero parlando sommessamente con Katerina. Floyd si era augurato che non avesse i sintomi di qualche malattia. Erano stati molto fortunati sotto tale aspetto; l’ultima cosa di cui avessero bisogno in quella fase era una situazione di emergenza che richiedesse la capacità professionale della dottoressa.
«È molto scortese, Walter» disse Brailovsky. «Stavo cominciando ad affezionarmi al posto. Potrebbe essere divertente andare in barca su quei laghi di lava.»
«E che ne direbbe di un barbecue su qualche vulcano?»
«O di bagni nello zolfo fuso?»
Erano tutti allegri, in preda a un sollievo persino isterico. Sebbene fosse ancora di gran lunga troppo presto per rilassarsi e sebbene la fase più critica della manovra di fuga dovesse ancora arrivare, avevano mosso senza incidenti il primo passo del lungo viaggio di ritorno. E questo giustificava una modesta esultanza.
L’esultanza non si protrasse a lungo, poiché Tanya si affrettò a ordinare a tutti coloro i quali non avevano compiti essenziali da svolgere di andare a riposarsi un po’’ — se possibile a dormire — per essere pronti alla manovra di sfioramento di Giove, di lì ad appena nove ore. Quando coloro ai quali si rivolse tardarono a muoversi, Sascia sgombrò i ponti urlando: «Sarete impiccati per questo, cani di ammutinati!» Appena due sere prima — rari momenti di distensione — si erano divertiti tutti a visionare la quarta versione cinematografica di Gli ammutinati del Bounty, con la migliore interpretazione del capitano Bligh, stando alla maggioranza degli storici del cinema, dopo quella leggendaria di Charles Laughton. Serpeggiava a bordo dell’astronave un certo stato d’animo che era preferibile venisse ignorato da Tanya, affinché non si mettesse idee in mente.
Dopo un paio d’ore irrequiete nel suo bozzolo, Floyd rinunciò alla ricerca del sonno e si recò nel ponte di osservazione. Giove era molto più grande e andava scomparendo adagio man mano che le due astronavi si scaraventarono verso il punto di massimo avvicinamento, sopra il lato del pianeta immerso nella notte. Splendente e gibboso disco, Giove rivelava una così infinita ricchezza di particolari — fasce di nubi, chiazze di ogni colore, da un bianco abbacinante al rosso mattone, scuri rigonfiamenti da ignote profondità, e l’ovale ciclonico della Grande Macchia Rossa — che lo sguardo non riusciva a contemplarli tutti. Era in transito la tonda e scura ombra di una luna — probabilmente di Europa, suppose Floyd. Stava assistendo a questo spettacolo incredibile per l’ultima volta; anche se avrebbe dovuto essere in possesso di tutte le sue energie e pronto alla massima efficienza di lì a sei ore, era un delitto perdere quei momenti preziosi dormendo.
Dove si trovava la macchia che il Controllo Missione aveva chiesto loro di osservare? Sarebbe dovuta apparire adesso, ma Floyd non era certo che fosse visibile a occhio nudo. Vasili sarebbe stato di certo troppo impegnato per occuparsene; forse avrebbe potuto dargli una mano lui dedicandosi, da dilettante, a un po’’ di astronomia. Vi era stato, in fin dei conti, un breve periodo, trent’anni prima, durante il quale si era guadagnato da vivere come astronomo professionista.
Attivò i comandi del telescopio principale, da cinquanta centimetri — fortunatamente il campo visivo non era ostacolato dalla mole adiacente della Discovery — e scrutò lungo la zona equatoriale con un ingrandimento medio. Ed ecco la macchia che stava apparendo proprio in quel momento, oltre l’orlo del disco.
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