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Arthur Clarke: 3001 Odissea finale

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Arthur Clarke 3001 Odissea finale

3001 Odissea finale: краткое содержание, описание и аннотация

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In «3001 Odissea finale» Clarke conclude con un ultimo affascinante episodio la leggendaria saga di fantascienza iniziata con «2001 Odissea nello spazio» facendo fare al lettore un balzo di mille anni nel futuro e rivelandogli una verità che possiamo comprendere soltanto adesso. Fondendo mirabilmente fantasia e precisione scientifica Clarke ci regala un altro indimenticabile capolavoro sui misteri insondabili dell'universo e sull'eterno, appassionante confronto tra l'uomo e l'ignoto. Arthur C. Clarke è considerato fra i più grandi scrittori di fantascienza di tutti i tempi. Personalità straordinaria, non solo nel campo della narrativa, scrisse un articolo nel 1945 che portò all'invenzione della tecnologia satellitare. Si spegne il 19 marzo 2008 a Colombo, nello Sri Lanka che tanto amava e in cui viveva da decenni.

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Arthur C. Clarke

3001 Odissea finale

A Cherence, Tamara, Melinda. Possiate essere felici in un secolo molto migliore del mio

© 1997 by Arthur C. Clarke.

© 1997 RCS Libri S. p.A., Milano.

Traduzione di Sergio Mancini

INDICE

PROLOGO — I PRIMOGENITI

PARTE I–CITTÀ DELLE STELLE

PARTE II — GOLIATH

PARTE III–I MONDI DI GALILEO

PARTE IV–IL REGNO DELLO ZOLFO

PARTE V–CONCLUSIONE

EPILOGO

FONTI

RINGRAZIAMENTI

COMMIATO

PROLOGO

I PRIMOGENITI

Chiamiamoli Primogeniti. Benché non fossero nemmeno lontanamente umani, erano fatti di carne e ossa e, dopo aver rivolto lo sguardo alle profondità dello spazio, avevano provato timore, e meraviglia… e solitudine. Appena possibile, avevano cominciato a cercare amici tra le stelle.

Nelle loro esplorazioni incontrarono la vita sotto molti aspetti e osservarono il travaglio dell’evoluzione in migliaia di mondi. Constatarono quanto di frequente i primi flebili guizzi d’intelligenza fossero apparsi e si fossero spenti nella notte cosmica.

E poiché, in tutta la galassia, non avevano trovato nulla di più prezioso della Mente, ne incoraggiarono ovunque il sorgere. Diventarono agricoltori nei campi delle stelle; seminarono, e a volte raccolsero. E a volte, con indifferenza, dovettero estirpare le erbacce.

Da molto tempo i grandi dinosauri erano scomparsi — la loro speranza nascente era stata spazzata da un casuale colpo di maglio proveniente dallo spazio — quando la nave da ricognizione entrò nel sistema solare dopo un viaggio di quasi mille anni. Passò accanto ai gelidi pianeti esterni, si arrestò brevemente sui deserti di Marte morente, e ora osservava la Terra.

E laggiù, sotto di loro, gli esploratori videro un mondo brulicante di vita. Per anni studiarono, raccolsero, classificarono. Quando ebbero appreso tutto ciò che era possibile apprendere, cominciarono a intervenire. Manipolarono il destino di molte specie, sulla terra e nei mari. Ma per almeno un milione di anni non avrebbero potuto sapere quale dei loro esperimenti avrebbe dato frutti.

Erano pazienti, ma non ancora immortali. C’era tanto da fare in questo universo di cento miliardi di soli, e altri mondi chiamavano. Perciò si diressero un’altra volta nell’abisso, sapendo che non sarebbero tornati mai più. D’altronde non ce n’era bisogno: i servitori che avevano lasciato dietro di loro avrebbero fatto il resto.

Sulla Terra i ghiacciai apparvero e scomparvero, mentre sopra di essi l’immutabile Luna continuava a nascondere il suo segreto alle stelle. Con un ritmo ancor più lento del ghiaccio dei poli, le maree di civiltà fluirono e defluirono in tutta la galassia. Sorsero e caddero imperi straordinari, bellissimi, terribili, e trasmisero il loro sapere ai successori.

E ora, là fuori, tra le stelle, l’evoluzione si proiettava verso nuove mete. I primi esploratori della Terra erano giunti da tempo ai confini della carne e delle ossa; appena le loro macchine diventarono migliori dei loro corpi, fu il momento di muoversi. Prima trasferirono i loro cervelli, poi i soli pensieri, in nuove sedi luccicanti di metallo e pietre preziose. Con esse errarono per la galassia. Non costruirono più navi spaziali. Essi stessi erano navi spaziali.

Ma l’epoca delle entitàmacchina trascorse rapidamente. Nel loro incessante sperimentare, avevano appreso a immagazzinare il sapere nella struttura stessa dello spazio e a conservare per l’eternità i loro pensieri nei reticoli gelidi di luce.

Quindi ora si trasformarono in energia pura; e su migliaia di mondi, i gusci vuoti che avevano scartato si contorsero per un po'’ in un’insensata danza di morte, poi si sbriciolarono in polvere.

Ora erano i Signori della galassia e potevano vagare a loro piacimento tra le stelle, o penetrare come bruma sottile negli interstizi stessi dello spazio. Nonostante fossero finalmente liberi dalla tirannia della materia, non avevano dimenticato del tutto le loro origini, nel caldo limo di un mare scomparso. E i loro meravigliosi strumenti continuarono ancora a funzionare, sorvegliando gli esperimenti iniziati tante ere fa.

Ma ormai non sempre ubbidivano agli ordini dei loro creatori; come tutte le cose materiali, non erano immuni alla corruzione del Tempo e del suo paziente e vigile servitore, l’Entropia.

E talvolta, per conto loro, scoprirono altre mete e vi si diressero.

PARTE I

CITTÀ DELLE STELLE

1. IL COWBOY DELLA COMETA

Il capitano Dimitri Chandler (matricola M2973. 04.21/93. 106/Marte/ Accademia spaziale3005), Dim per gli amici, era comprensibilmente seccato. Il messaggio dalla Terra aveva impiegato sei ore ad arrivare al rimorchiatore spaziale Goliath, attualmente oltre l’orbita di Nettuno; se fosse giunto dieci minuti più tardi, avrebbe potuto rispondere: «Spiacente… non posso andarmene adesso… abbiamo appena cominciato a spiegare lo schermo solare».

La scusa avrebbe funzionato alla perfezione: avvolgere il nucleo di una cometa in una coltre di pellicola riflettente, spessa solo poche molecole ma con un lato di parecchi chilometri, non era il genere di lavoro che si potesse lasciare a metà.

Eppure, ubbidire a quella ridicola richiesta sarebbe stata una buona idea: era già in disgrazia per quel che riguardava il sistema solare, anche se non per colpa sua. La raccolta di ghiaccio dagli anelli di Saturno e l’invio a Venere e Mercurio, dove ne avevano davvero bisogno, erano cominciati già attorno al 2700 — tre secoli fa. Il capitano Chandler non era mai stato capace di cogliere una vera differenza nelle immagini «prima e dopo» che i Conservatori Solari producevano in continuazione per suffragare le loro accuse di vandalismo celeste. Ma in genere il pubblico, ancora sensibile ai disastri ecologici dei secoli precedenti, la pensava diversamente e il referendum «Giù le mani da Saturno!» aveva ottenuto una sostanziosa maggioranza. Come risultato, Chandler non era più un Predone dell’Anello, ma un Cowboy della Cometa.

E così adesso si trovava a una considerevole distanza da Alpha Centauri, a radunare scaglie dalla Fascia di Kuiper. Lassù c’era sicuramente ghiaccio a sufficienza per coprire Venere e Mercurio di oceani profondi chilometri, ma ci sarebbero voluti secoli per estinguere le loro fiamme e renderli adatti alla vita. Ovviamente i Conservatori Solari continuavano a protestare contro tutto questo, benché non più con tanto entusiasmo. I milioni di morti del tsunami provocato dall’asteroide del Pacifico nel 2034 — quanta ironia nel fatto che un impatto sulla Terra avrebbe causato danni molto minori! — avevano ricordato alle generazioni future che la razza umana era come un fragile cestello troppo pieno di uova.

E va bene, si disse Chandler, ci volevano cinquant’anni prima che questo pacco speciale raggiungesse la propria destinazione, per cui un ritardo di una settimana non avrebbe fatto molta differenza. Ma avrebbe dovuto rifare tutti i calcoli sulla rotazione, il centro di massa e i vettori di spinta, e poi avrebbe dovuto trasmetterli a Marte per il controllo. Era consigliabile fare i conti per benino, prima di mandare miliardi di tonnellate di ghiaccio lungo un’orbita che avrebbe potuto portarle a un tiro di schioppo dalla Terra.

Come già era capitato molte volte, gli occhi del capitano Chandler si posarono distrattamente sulla vecchia fotografia posta sulla scrivania. Mostrava un vapore a tre alberi, minuscolo sotto l’iceberg che gli incombeva addosso, proprio come il Goliath in quel preciso istante.

Incredibile come un solo lungo lasso di vita, aveva riflettuto spesso, dividesse quella primitiva Discovery dall’astronave con lo stesso nome diretta verso Giove. E che cosa avrebbero pensato quegli esploratori antartici di tanto tempo fa della vista che gli si offriva dal suo ponte?

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