La Discovery era partita dalla Terra con tre delle piccole capsule spaziali o baccelli, che consentivano a un astronauta di svolgere attività extraveicolari comodamente in maniche di camicia. Uno dei baccelli era andato perduto nell’incidente — ammesso che si fosse trattato di un incidente — nel quale aveva perduto la vita Frank Poole. Un altro aveva portato Dave Bowman all’appuntamento ultimo con il Grande Fratello e condiviso quello che era stato il suo fato. Un terzo veicolo si trovava ancora nella rimessa dell’astronave, il «Locale baccelli».
Il veicolo era privo di un componente importante — il portello, fatto saltare dal comandante Bowman quando, dopo la perigliosa traversata nel vuoto, egli era entrato nell’astronave dal locale a chiusura ermetica, essendosi rifiutato Hal di aprirgli il «Locale baccelli». La conseguente violenta uscita dell’aria aveva scaraventato la capsula a parecchie centinaia di chilometri di distanza prima che Bowman lo facesse tornare indietro mediante impulsi radio. Non ci si poteva di certo stupire se egli non si era mai dato la pena di sostituire il portello mancante.
Ora la capsula Numero 3 (sulla quale, rifiutando di dare qualsiasi spiegazione, Max aveva tracciato il nome Nina) veniva preparata per una nuova attività extraveicolare, o AEV. Continuava a mancare del portello, ma ciò non rivestiva alcuna importanza in quanto al suo interno non avrebbe viaggiato nessuno.
La dedizione al dovere di Bowman era una fortuna inaspettata, e sarebbe stata pura follia non approfittarne. Avvalendosi della capsula Nina come di una sondarobot, il Grande Fratello sarebbe potuto essere esaminato da vicino senza mettere a repentaglio vite umane. Questa, almeno, era la teoria; ma nessuno avrebbe potuto escludere la possibilità di una reazione tale da inghiottire l’astronave. In fin dei conti, cinquanta chilometri non equivalevano nemmeno allo spessore di un capello, in base alla scala delle distanze cosmiche.
Dopo anni di abbandono, Nina aveva un aspetto decisamente malconcio. La polvere, che sempre galleggiava ovunque con la gravità zero, si era posata sulle superfici esterne, per cui il guscio, un tempo di un bianco immacolato, era diventato color grigio sporco. Mentre la capsula, o baccello, si allontanava dall’astronave accelerando adagio, con i manipolatori esterni ben ripiegati all’indietro, e l’oblò ovale che fissava il vuoto come un enorme occhio spento, Nina non parve un ambasciatore molto imponente del genere umano. Ma questo costituiva senz’altro un vantaggio; un emissario così umile sarebbe potuto essere tollerato, e le piccole dimensioni e la scarsa velocità ne avrebbero posto in risalto le intenzioni pacifiche. Era stato proposto di fare avvicinare Nina al Grande Fratello con le «mani» tese; ma l’idea venne scartata quando quasi tutti ammisero che, se avessero veduto la capsula diretta verso di loro con gli artigli meccanici protèsi, se la sarebbero data a gambe temendo di lasciarci la pelle.
Dopo un tranquillo tragitto di due ore, Nina si fermò a cento metri da uno spigolo dell’enorme lastrone rettangolare. Vedendolo così da vicino non si aveva un’idea della sua vera forma; si sarebbe detto che le telecamere stessero inquadrando l’estremità di un tetraedro nero dalle dimensioni indefinite. Gli strumenti a bordo della capsula non indicarono alcuna traccia di radioattività o di campi magnetici; dal Grande Fratello non scaturiva assolutamente nulla, tranne la minuscola frazione di luce solare che esso si degnava di riflettere.
Dopo una sosta di cinque minuti — l’equivalente, nelle intenzioni, di un «Salve, sono qui!» — Nina cominciò a spostarsi diagonalmente davanti alla faccia più piccola, poi a quella intermedia e infine davanti alla più vasta, tenendosi a una distanza di circa cinquanta metri, ma avvicinandosi talora fino a cinque. Quale che fosse il distacco, il Grande Fratello sembrava sempre assolutamente identico, liscio e privo di una qualsiasi particolarità rilevabile. La missione, molto tempo prima di essere completata, divenne noiosa, e gli spettatori su entrambe le astronavi tornarono a dedicarsi ai loro vari compiti, limitandosi a sbirciare di quando in quando i monitor.
«Ecco fatto» disse infine Walter Curnow, quando Nina fu tornata al punto di partenza. «Potremmo trascorrere il resto della nostra esistenza facendo questo senza scoprire niente di più. Che cosa devo fare con Nina… riportarla sull’astronave?»
«No» disse Vasili, inserendosi nel circuito radio dalla Leonov. «Ho una proposta da fare. La porti sopra il centro esatto della faccia più vasta. La mantenga immobile… oh, diciamo a cento metri di distanza. E la lasci parcheggiata là, con il radar regolato sul massimo della precisione.»
«Nessuna difficoltà… a parte il fatto che potrà esservi un po’’ di deriva residua. Ma qual è lo scopo?»
«Mi è appena venuta in mente un’esercitazione che ci fecero fare ai corsi universitari di astronomia… l’attrazione gravitazionale di una lastra infinita. Non avrei mai creduto che mi sarebbe capitata l’occasione di servirmene nella vita reale. Dopo che avrò studiato i movimenti di Nina si abbassi e tocchi l’oggetto.»
«Lo ha già toccato.»
«Che cosa intende dire?» domandò Curnow, in tono alquanto indignato. «Non l’ho mai fatta avvicinare più di cinque metri.»
«Non sto criticando le sue qualità di guida… anche se in quel primo incontro abbiamo rasentato il pericolo, no? Ma lei ha toccato dolcemente Zagadka ogni volta che si è servito dei getti di spinta di Nina in prossimità della sua superficie.»
«Come una pulce che saltasse su un elefante.»
«Può darsi. Non lo sappiamo, semplicemente. Ma faremo meglio a presumere che, in un modo o nell’altro, Zagadka sia consapevole della nostra presenza, e ci tolleri soltanto sin quando non le diamo fastidio.»
Lasciò sospeso nell’aria un interrogativo inespresso. Come si poteva infastidire un nero lastrone rettangolare lungo due chilometri? E come si sarebbe manifestata, esattamente, la sua disapprovazione?
25. LA VEDUTA DAL LAGRANGE
L’astronomia è ricca di coincidenze affascinanti ma prive di significato. La più nota è il fatto che, dalla Terra, sia il Sole sia la Luna hanno lo stesso diametro apparente. Lì, nel punto di librazione L.1, scelto dal Grande Fratello per il suo esercizio di equilibrismo cosmico sulla corda gravitazionale tesa tra Giove e Io, si determinava un fenomeno analogo. Pianeta e satellite sembravano avere esattamente le stesse dimensioni.
Ma quali dimensioni! Non il miserabile mezzo grado del Sole e della Luna, bensì quaranta volte il loro diametro milleseicento volte la loro superficie. La vista sia dell’uno sia dell’altro bastava per colmare la mente di stupore reverenziale e di meraviglia; la visione di entrambi gli astri era travolgente.
Ogni quarantadue ore essi passavano attraverso il cielo completo delle loro fasi; quando Io era nuova, Giove era pieno, e viceversa. Ma anche quando il Sole si celava dietro a Giove e il pianeta presentava soltanto il lato immerso nella notte, esso era inequivocabilmente presente — un enorme disco nero che esclissava le stelle. Talora quella tenebra veniva momentaneamente lacerata da lampi che si protraevano per svariati secondi, causati da tempeste elettriche di gran lunga più formidabili di quelle della Terra.
Al lato opposto del cielo, sempre mantenendo lo stesso emisfero verso il padrone gigantesco, Io era una caldaia, in pigra ebollizione, di rossi e di arancioni, con occasionali nuvole gialle che irrompevano da uno dei vulcani, e rapidamente ricadevano sulla superficie. Al pari di Giove, ma su una scala temporale lievemente più lunga, Io era un mondo senza geografia. Il suo aspetto veniva rimodellato in pochi decenni… quello di Giove cambiava in pochi giorni.
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