«Non voglio fare il corvo del malaugurio, capitano» osservò Barrett «ma… e se fosse affondata anche la piattaforma?»
«Questo lo sapremo appena avrò riparato la radio» replicò Pat, guardando preoccupato i fili che sfuggivano dal cavo strappato. «E finché non sarò venuto a capo di quegli spaghi lassù, dovrete rassegnarvi all’illuminazione di emergenza.»
«A me non dispiace» disse la signora Schuster. «Anzi, è intima. «Dio vi benedica, signora Schuster» pensò Pat tra sé. Si guardò attorno; era difficile distinguere bene le facce in quel chiarore fioco, ma i passeggeri sembravano calmi.»
Lo erano molto meno un minuto dopo.
Pat, infatti, impiegò solo un minuto per capire che non poteva far niente per riparare le luci e la radio. I fili erano stati strappati in un punto all’interno del cavo principale e mancavano i ferri adatti per raggiungere l’interruzione.
«Il guaio è più serio di quel che credevo» riferì Pat. «Non potremo più comunicare, a meno che non ci calino un microfono per ristabilire il contatto.»
«Il che significa» osservò Barrett, che pareva portato a scovare il lato nero delle cose «che al momento il contatto non c’è. Non capiranno perché non rispondiamo. E se ne deducessero che siamo morti tutti? E abbandonassero le operazioni di soccorso?»
Quell’idea era venuta anche a Pat, ma l’aveva scacciata immediatamente.
«Avete sentito come parla l’ingegner Lawrence, no?» replicò. «Non è certo il tipo che rinuncia alla lotta prima d’avere la certezza assoluta che non ci sia più niente da salvare. Su questo punto, non avete nessun motivo per preoccuparvi.»
«E per l’aria?» domandò angosciato Jayawardene. «Ora siamo rimasti di nuovo senza rifornimento.»
«Dovrebbe durare per parecchie ore, ora che i filtri sono stati rigenerati. E, nel frattempo, quei tubi verranno rimessi a posto» lo rassicurò Pat, mostrando una fiducia che non provava. «Nell’attesa cerchiamo di passare il tempo come possiamo; l’abbiamo fatto per tre giorni, possiamo farlo ancora per qualche ora.»
Si guardò attorno, cercando eventuali segni di disaccordo, e vide uno dei passeggeri alzarsi in piedi. L’ultima persona alla quale Pat avrebbe pensato: il taciturno, solitario signor Radley, che aveva forse detto dieci parole in tutto da quando il viaggio era cominciato.
Sul conto suo, Pat sapeva soltanto che era un amministratore e che veniva dalla Nuova Zelanda: l’unico Paese della Terra ancora un po’ isolato dal resto del mondo, in virtù della propria posizione geografica.
«Volevate dire qualche cosa, signor Radley?» domandò Pat.
«Sì, capitano» rispose Radley. «Ho una confessione da fare. Temo che tutto questo stia succedendo per colpa mia.»
Quando l’ingegnere capo interruppe il suo commento ai lavori, tutti i telespettatori in ascolto compresero che qualcosa non andava. Che cosa, però, nessuno fu in grado di stabilirlo, almeno basandosi sulle immagini. Dopo alcuni secondi di attività fattasi improvvisamente frenetica, le figure in tuta spaziale si erano riunite in gruppo, certo a consulto, e con i circuiti telefonici isolati, in modo che nessuno potesse sentire cosa si stavano dicendo. Era avvilente osservare quella discussione silenziosa e non avere idea di quale fosse l’argomento.
Durante quei lunghi minuti di attesa, mentre lo studio della centrale stava tentando di sapere che cos’era successo, Jules fece del suo meglio per tenere viva l’immagine. Ma era un’impresa rendere interessante la scena statica da tanta distanza e con una sola telecamera. jules aveva perfino domandato se era possibile spostare l’astronave, ma il capitano Anson era stato esplicito. «Non ho nessuna intenzione di saltellare su e giù per le montagne» aveva dichiarato. «Questa è un’astronave, non un camoscio.»
Finalmente l’adunanza si sciolse e gli uomini della piattaforma ristabilirono il contatto telefonico. Ora, forse, Lawrence avrebbe risposto alle chiamate radio che lo stavano bombardando da ben cinque minuti…
«Signore Iddio!» esclamò Spenser. «Non posso crederci! Ma lo vedete cosa stanno facendo?»
«Già» fece il capitano Anson. «E nemmeno io riesco a crederci. Mi pare proprio che stiano sgomberando il campo.»
Come scialuppe che si allontanano da una nave che affonda, le slitte da polvere, cariche di uomini, si stavano scostando dalla piattaforma,
Forse era un bene che il Selene fosse rimasto senza il contatto radio. Sarebbe stato tutt’altro che producente, per il morale dei passeggeri, sapere che le slitte stavano abbandonando il luogo dell’affondamento. Ma al momento nessuno, a bordo, pensava alle squadre di soccorso: Radley era al centro della scena debolmente illuminata.
«Cosa significa: «è tutta colpa mia»?» domandò Pat nell’attonito silenzio che seguì la dichiarazione del neozelandese. Attonito ma non ostile, perché nessuno l’aveva presa sul serio.
«È una storia lunga, capitano» disse Radley, in tono stranamente impersonale. Era come ascoltare un robot, e Pat provava una strana sensazione di malessere. «Non dico d’averlo provocato io, volontariamente. Ma temo che l’incidente sia stato provocato di proposito, e mi dispiace che siate rimasti implicati anche voi. Vedete… loro danno la caccia a me.»
«Non ci mancava altro» pensò Pat. «Abbiamo proprio tutto contro. Ora ci voleva anche un maniaco!»
Poi si rese conto dell’ingiustizia di quel pensiero. Per quanto riguardava i suoi passeggeri era stato proprio fortunato. Solo la Morley gli aveva dato qualche fastidio, ma il commodoro, il dottor McKenzie, gli Schuster, il professor Jayawardene, David Barrett… e tutti gli altri, avevano sempre obbedito senza fare storie.
E poi c’era Sue, che già si stava dando da fare, tranquillamente intenta ai suoi doveri. Solo Pat si accorse che la ragazza apriva l’armadietto dei medicinali e nascondeva nel palmo uno di quei piccoli cilindri che davano la calma del sonno.
Se Radley avesse dato segni di agitazione, Sue sarebbe stata pronta a intervenire.
Al momento, però, il signor Radley pareva calmissimo, in pieno possesso del proprio equilibrio e perfettamente razionale. Sembrava esattamente quello che era: un piccolo contabile di mezz’età che si era preso una vacanza sulla Luna.
«Molto interessante quello che dite, signor Radley» osservò il commodoro, in tono disinvolto «ma perdonate la mia ignoranza: chi sarebbero «loro», e perché dovrebbero avercela con voi?»
«Sono sicurissimo, commodoro, che avrete già sentito parlare dei dischi volanti.»
«Sì, certo» rispose il commodoro. «Ho letto qualcosa su certi vecchi manuali di astronautica. Circa ottant’anni fa erano una specie di fissazione, vero?»
«Oh, se è per questo risalgono a molto tempo prima, ma solo nel secolo scorso la gente cominciò a notarli. C’è un vecchio manoscritto trovato in una abbazia inglese, del milleduecentonovanta, che ne descrive uno in tutti i particolari…»
«Un momento, scusate» interruppe Pat. «Che diavolo significa «disco volante»? Io non li ho mai sentiti nominare.»
«Temo, capitano, che la vostra istruzione sia stata parecchio trascurata» commentò Radley in tono addolorato. «Il termine «disco volante» entrò nell’uso generale dopo il millenovecentoquarantasette, per descrivere gli strani, insoliti veicoli spaziali a forma di piatto che da secoli compivano missioni di ricognizione sul nostro pianeta. Alcuni preferivano usare la definizione di «oggetti volanti non identificati».»
«Ma credete davvero che attorno alla Terra si aggirino visitatori venuti dallo spazio?» intervenne uno dei passeggeri, con fare scettico.
«Credo qualcosa di più» ribatté Radley. «Spesso quei dischi sono atterrati e hanno preso contatto con gli esseri umani. Prima che noi arrivassimo qui, avevano una base sull’altra faccia della Luna, poi la distrussero quando i primi razzi cominciarono a fotografare il satellite.»
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