Salì sul sedile ed esaminò il tubo dell’aria più da vicino.
Per un momento non disse nulla; poi scese, e aveva un’espressione perplessa, ma anche preoccupata.
«Che succede?» s’informò Hansteen.
Conosceva abbastanza bene Pat, ormai, per leggergli in faccia come in un libro aperto.
«Quel tubo strappa all’insù. Forse qualcuno, sulla piattaforma, l’avrà maneggiato sbadatamente, fatto sta che si è accorciato di un altro centimetro, da quando ho fissato il cemento.»
Poi Pat s’interruppe, improvvisamente stravolto. «Misericordia» bisbigliò. «E se fosse colpa nostra… Se fossimo noi che stiamo affondando!»
«E con questo?» replicò il commodoro, senza scomporsi. «C’è da aspettarselo, che la polvere continui ad assestarsi sotto il nostro peso. Questo significa che siamo in pericolo. A giudicare da quel tubo, saremmo scesi di un centimetro in ventiquattro ore. Eventualmente, possono calarci ancora un po’ di, tubo.»
Pat rise, un po’ mortificato.
«Dev’essere così. Avrei dovuto pensarci subito. Probabilmente abbiamo continuato ad affondare lentamente fin dal primo istante, solo che prima non potevamo accorgercene. Comunque, è meglio che faccia rapporto all’ingegnere. Gli servirà saperlo per i suoi calcoli.»
Pat fece per avviarsi verso l’attrezzatura radio, ma non poté arrivarci.
La natura aveva impiegato un milione di anni a preparare la trappola che aveva inghiottito il Selene trascinandolo sotto la polvere del Mare della Sete. La seconda trappola il Selene se l’era preparata da sé, e in brevissimo tempo.
Il battello, progettato per compiere solo brevi percorsi di poche ore, non era stato corredato degli impianti ingegnosi grazie ai quali le navi spaziali rimettono in ciclo tutta la loro provvista d’acqua. Il Selene non aveva bisogno di conservare le sue risorse, come fanno le navi spaziali; il piccolo quantitativo d’acqua, normalmente usato e prodotto a bordo, veniva tranquillamente espulso.
In quei cinque giorni, parecchie centinaia di chili di liquido e di vapore erano stati scaricati dal Selene, per venire immediatamente assorbiti dalla polvere che lo circondava. Già da molte ore la polvere nelle immediate vicinanze dei tubi di scarico si era saturata ed era diventata fango. Sgocciolando all’ingiù attraverso una quantità di piccoli canali, quell’acqua aveva irrigato il mare circostante. Silenziosamente, metodicamente, il battello aveva lavato via le proprie fondamenta. La leggera spinta del cassone in arrivo aveva fatto il resto.
Sulla piattaforma il primo segnale di disastro fu l’ammiccare improvviso di una luce rossa nell’impianto depuratore, sincronizzata con l’ululato di un radioclacson su tutte le lunghezze d’onda delle tute spaziali. L’ululato cessò appena il tecnico addetto schiacciò il bottone di arresto, ma la luce rossa continuò a lampeggiare.
A Lawrence bastò un’occhiata ai quadranti per capire cos’era successo. I due tubi dell’aria non erano più collegati al Selene. Il depuratore soffiava ossigeno nel mare e, quel che era peggio, aspirava polvere. Lawrence si domandò quanto tempo ci sarebbe voluto per ripulire i filtri, ma accantonò subito quel problema. Era troppo occupato a chiamare il battello.
Nessuna risposta. Lawrence tentò inutilmente su tutte le lunghezze d’onda usate dal Selene. Il Mare della Sete era tornato totalmente silenzioso.
«È finita» pensò Lawrence, «non c’è più niente da fare. Ormai era questione di poco, ma non ce l’abbiamo fatta. E ci bastava un’ora soltanto…».
Cosa poteva essere successo? Forse lo scafo aveva ceduto sotto il peso della polvere. No… impossibile, la pressione interna dell’aria l’avrebbe impedito. La causa doveva essere un’altra.
Lawrence non ne era certo, ma gli era sembrato di aver sentito tremare la piattaforma sotto di sé.
Mentre il Selene sprofondava, Pat aveva capito che si trattava di un fenomeno molto diverso dal primo avvallamento. Era molto più lento, e dall’esterno dello scafo arrivavano rumori e crepitii che la polvere non poteva produrre.
In alto, i tubi dell’ossigeno venivano lentamente divelti. Non uscirono di colpo, perché lo scafo stava scivolando di poppa, e adesso la cabina era in pendenza. Con un rumore secco di fibreglass che si frantumava, il tubo di poppa venne strappato dal tetto e sparì.
Immediatamente un denso getto di sabbia irruppe nella cabina e si sparse in una nube soffocante.
Il commodoro Hansteen era il più vicino e fu il primo a correre ai ripari. Strappatosi via la camicia, l’appallottolò rapidamente e la ficcò nell’apertura. La polvere schizzava in tutte le direzioni mentre Hansteen lottava per arrestare il flusso; c’era quasi riuscito quando si sfilò il tubo di prua, e le luci principali si spensero mentre, per la seconda volta, il cavo principale veniva divelto.
«Ci penso io!» urlò Pat. Un attimo dopo, anche lui senza camicia, stava adoperandosi per fermare il torrente di sabbia che si riversava dentro attraverso il secondo foro.
Pat aveva solcato il Mare della Sete un centinaio di volte, ma mai prima d’ora era venuto a contatto della strana sostanza con la pelle nuda. La polvere grigia gli entrò negli occhi e nel naso, soffocandolo mezzo e accecandolo quasi del tutto. La sostanza dava una sensazione viscida, come di sapone. Mentre lottava, Pat si accorse di pensare: «Se c’è una morte peggiore dell’annegamento, è quella di venire sepolto vivo!»
Quando il getto si ridusse a un semplice rivolo, Pat capi che per il momento il pericolo era scongiurato. La pressione prodotta da quindici metri di polvere, sotto la bassa gravità lunare, non era difficile da tenere a bada… certo, se il foro fosse stato più largo, sarebbe stata una faccenda molto più seria.
Pat si scosse la polvere dalla testa e dalle spalle, poi aprì cautamente gli occhi. Benedette quelle luci di emergenza, anche se un po’ fioche. Il commodoro aveva già tappato l’altra falla, e adesso stava spruzzando acqua attorno per far depositare la polvere.
La sua tecnica era efficacissima, e le poche nuvole che restavano si trasformavano ben presto in macchie di fango sul ponte.
Hansteen incontrò lo sguardo di Pat.
«Ebbene, capitano, avete qualche teoria in proposito?»
«In certi momenti» pensò Pat, «l’autocontrollo del commodoro è addirittura irritante.» Ma subito si vergognò di quel sentimento, dettato unicamente dall’invidia.
«Non so cosa possa essere accaduto. Forse ce lo spiegheranno quelli lassù.»
C’era una bella salita fino al posto di comando, perché lo scafo era inclinato di oltre trenta gradi. Pat, mentre si sistemava davanti alla radio provava una specie di torpore disperato, che superava ogni altra sensazione provata fino a quel momento. Era una specie di rassegnazione, il convincimento quasi superstizioso che gli dei fossero contro di loro, e che ogni sforzo fosse inutile.
Ne fu più che mai sicuro quando mise in funzione la radio e scoprì che era assolutamente muta. La corrente era staccata; quando il tubo di immissione aveva strappato il cavo dei fili principali, aveva fatto un lavoretto completo.
Pat si girò lentamente sul sedile. Ventun persone lo guardavano ansiose, aspettando notizie, ma di queste, venti Pat non le vide, perché Susan lo fissava, e lui era conscio soltanto dell’espressione di lei. Era l’espressione di chi si prepara ad affrontare il peggio, ma nemmeno ora tradiva alcun segno di paura. Nel guardare Sue, Pat sentì che la sua disperazione si dissolveva. Provò una forza nuova, quasi un senso di speranza.
«Che il diavolo mi porti se ci capisco qualcosa» disse. «Ma di un solo fatto sono sicuro: non siamo ancora perduti. Saremo forse affondati di un altro tratto, ma i nostri amici sulla piattaforma torneranno a raggiungerci. Pazienza, si tratterà di un nuovo ritardo, ma non c’è ragione di preoccuparsi.»
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