Arthur Clarke - Polvere di Luna

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La polvere che ricopre la luna non è né liquida né solida: e in questo mare uniforme e infido si svolge la spaventosa avventura del battello Selene, mirabilmente narrata ora per ora da uno dei maestri della fantascienza moderna. Seguendo il drammatico «montaggio» del bestseller di Clarke il lettore vedrà subito perchè una grande Casa di produzione abbia già acquistato, a poche settimane dalla pubblicazione, i diritti cinematografici di questo «Titanic» del futuro.
Alla fine, però, il film non è stato girato, e il romanzo è fra i meno ristampati in Italia del grande autore britannico: appare infatti in sole tre edizioni italiane!

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«Il morale è alto, direi, soprattutto adesso che possiamo comunicare con i parenti e gli amici.»

«A proposito, Pat, c’è un passeggero che non ha ricevuto né trasmesso messaggi, e per di più sembra che la cosa non gli interessi affatto.»

«Chi è?»

Hansteen abbassò la voce. «Radley, il neozelandese. Non so il perché, ma mi preoccupa.»

«Forse non ha nessuno sulla Terra e non saprebbe con chi parlare.» Un uomo che ha abbastanza denaro per vivere sulla Luna non può essere senza amici «replicò Hansteen. Poi sorrise.» Non intendevo fare il cinico. Comunque vi consiglio solo di tenere d’occhio il signor Radley.

«Ne avete parlato con Sue… con la signorina Wilkins?»

«È stata lei a farmelo notare.»

«Dovevo immaginarlo» pensò, ammirato, Pat: «Non le sfugge mai niente». Ora che aveva ripreso a sperare di cavarsela, Pat pensava a Sue molto seriamente e pensava a ciò che lei gli aveva detto. In vita sua si era innamorato almeno cinque o sei volte, o così aveva creduto, ma stavolta era diverso. Conosceva Sue da oltre un anno e gli era sempre piaciuta. Adesso però si domandava anche quali fossero i veri sentimenti della ragazza. Forse quello che era accaduto dentro il portello stagno non aveva più nessuna importanza; era stato l’attimo di smarrimento di due persone che credevano di avere soltanto poche ore di vita.

Ma forse no, forse il vero Pat Harris e la vera Sue Wilkins erano finalmente usciti dal loro riserbo, spinti dalla tensione e dall’ansia di quegli ultimi giorni. Purtroppo, solo il tempo poteva dargli la risposta. Se anche esisteva una prova sicura, scientifica, per stabilire quando due persone erano innamorate, Pat non ne aveva mai sentito parlare.

La polvere che lambiva «ma era esatta la parola?» la banchina dalla quale il Selene si era staccata quattro giorni prima, era profonda soltanto un paio di metri, comunque sufficienti per la prova. Se le attrezzature messe insieme in gran fretta funzionavano lì, avrebbero funzionato anche in mare aperto.

La leggera impalcatura della piattaforma poggiava sopra una dozzina di grossi recipienti di metallo, sui quali si leggeva ancora la scritta: «Alcol Etilico. Si prega di restituire i vuoti allo Spaccio Generale n. 3 di Copernicus». Adesso però nei recipienti era stato fatto il vuoto ad altissimo grado, e ognuno poteva sostenere un peso di due tonnellate lunari senza affondare.

La piattaforma, costruita principalmente con lastre d’alluminio, come il novanta per cento delle strutture usate sulla Luna, stava prendendo forma rapidamente. Lawrence, che osservava i lavori della palazzina del porto, aveva già visto almeno sei bulloni cadere nella polvere, che li aveva inghiottiti immediatamente. Ecco… era sparita anche una chiave inglese. Sarebbe stato opportuno legare alla piattaforma tutti gli attrezzi, anche se ciò avrebbe reso scomodo il maneggiarli.

Quindici minuti esatti. Niente male, considerato che gli uomini lavoravano nel vuoto ed erano quindi impacciati dalle tute pressurizzate. La piattaforma poteva venire allungata da qualsiasi parte, ma per cominciare quella prima sezione sarebbe stata sufficiente. Poteva sostenere più di venti tonnellate di materiale, e ci voleva tempo prima di trasportare sul posto un peso così notevole.

Soddisfatto, Lawrence lasciò l’edificio mentre i suoi assistenti provvedevano a smontare di nuovo la piattaforma. Cinque minuti più tardi entrò nel deposito locale di attrezzature. Lì, invece, le cose non erano altrettanto soddisfacenti. Issato su un palo di cavalletti c’era un facsimile, grande due metri quadri, del tetto del Selene: una copia esatta di quello vero, ricavata nello stesso materiale. Mancava solo il rivestimento esterno di tessuto alluminato, che serviva di protezione contro il sole; ma quel foglio, leggero e inconsistente, non poteva infirmare i risultati delle prove.

L’esperimento era semplice fino all’assurdo, ed era affidato a tre soli mezzi: un punteruolo robusto, un martello, e un ingegnere avvilito che, nonostante ogni sforzo, non era ancora riuscito a far passare il punteruolo attraverso il tetto.

«Che cos’è che non va?» s’informò Lawrence.

«Il tetto è troppo elastico» spiegò l’ingegnere, asciugandosi la fronte. «Il punteruolo rimbalza senza penetrare.»

«Capisco. Ma quando useremo un vero tubo di quindici metri, col peso della polvere tutt’intorno, forse la spinta elastica verrà assorbita.»

«Può darsi… però guardate qua sotto.»

S’inginocchiarono sotto il modellino e ispezionarono la parte interna del tetto. Vi erano state tracciate delle linee col gesso per indicare la posizione dei fili elettrici, che bisognava assolutamente evitare.

«Il tetto è di fiberglass, una sostanza talmente dura da scheggiarsi quando si riesce a bucarla. Vedete, ci sono già le crepe. Ho paura che, se tentiamo di forarla con questo sistema spiccio, incrineremo il tetto.»

«È un rischio che non possiamo correre» convenne Lawrence. «Bene, si cambia idea. Bisognerà trapanare. Useremo un trapano, avvitato all’estremità del tubo, in modo che possa venire rimosso facilmente. Come andiamo col resto dell’impianto di tubi?»

«È quasi pronto. Tra due o tre ore sarà finito. Possiamo usare materiale comune, per fortuna.»

«Tra due ore sarò di ritorno» disse Lawrence. Non aggiunse, come avrebbero fatto altri: «Voglio trovarlo finito». Il suo personale stava già facendo miracoli, e sarebbe stato assurdo, e pericoloso, pretendere di più. Erano lavori accurati che richiedevano precisione, e la provvista di ossigeno del Selene aveva ancora un margine di tre giorni. Tra poche ore, se tutto andava bene, quel margine non avrebbe più avuto limiti.

Sfortunatamente, tutto andava malissimo.

Il commodoro Hansteen fu il primo ad accorgersi del pericolo lento e insidioso che li minacciava. L’aveva già corso una volta, quando su Ganimede si era trovato a indossare una tuta difettosa: un incidente del quale preferiva non parlare, ma che non aveva più dimenticato.

«Pat» disse sottovoce, per essere sicuro che nessun altro lo sentisse. «Non avete un po’ di difficoltà a respirare?»

Pat parve sorpreso, poi rispose: «Sì, ora che mi ci fate pensare, L’avevo attribuito al gran caldo.»

«Anch’io, sulle prime. Ma conosco questi sintomi… Rischiamo di avvelenarci con l’anidride carbonica.»

«Ma è assurdo! Abbiamo ossigeno sufficiente per altri tre giorni… A meno che non sia capitato qualcosa ai depuratori dell’aria.»

«Temo proprio che sia così. Che sistema usiamo per sbarazzarci dell’anidride carbonica?»

«Viene assorbita chimicamente. L’impianto non ci ha mai dato noie prima d’ora.»

«Già, ma non aveva mai funzionato in condizioni del genere. Temo che il calore abbia essiccato le sostanze reagenti. Non c’è modo d’assicurarsene?»

Pat scosse la testa. «No, il portello di accesso è nello scafo esterno.» Sue, mia cara «si lagnò una voce stanca, che non sembrava più quella della signora Schuster» avreste niente contro il mal di testa? «Anche per me, signorina» disse un altro passeggero.

Pat e il commodoro si guardarono preoccupati.

«Quanto tempo ci resta, secondo voi?» domandò Pat.

«Due o tre ore al massimo. E ce ne vorranno almeno sei prima che Lawrence e i suoi arrivino qui.»

Fu in quel momento che Pat comprese, senza possibilità di dubbio, di essere effettivamente innamorato di Susan. La sua prima reazione, infatti, non fu di timore per la propria vita, ma di rabbia e di dolore perché, dopo aver sopportato tanto, Sue sarebbe morta quando ormai la salvezza era vicina.

Quando Tom Lawson si svegliò in una stanza d’albergo che lui non ricordava affatto, ebbe dapprima qualche incertezza perforo sulla propria identità, e ancor meno riuscì a capire dove si trovava e perché. Il fatto di avvertire una certa gravità servi a fargli ricordare che non si trovava più su Lagrange. Però non pesava abbastanza per essere sulla Terra.

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