«La spiegazione è questa. Non c’è dubbio. Forse la fortuna sta cambiando.» Guardò l’orologio e fece un rapido calcolo mentale. «A quest’ora il sole sta sorgendo sul Mare della Sete. La base avrà mandato le slitte a cercarci, e ormai conosceranno la nostra posizione quasi con esattezza. Scommetto dieci contro uno che entro poche ore ci trovano.»
«Dobbiamo dirlo al commodoro?»
«No, lasciamolo dormire. Ha avuto una giornata faticosa. Gli daranno la notizia quando si sveglia.»
Appena McKenzie l’ebbe lasciato, Pat cercò di riprendere il sonno interrotto. Ma non ci riuscì; giacque con gli occhi aperti nella fioca luce rossastra, riflettendo sulla strana svolta che aveva alterato il corso del destino. La polvere che li aveva inghiottiti e poi aveva minacciato di cuocerli vivi, adesso era venuta in loro aiuto: le sue correnti di convezione spingevano l’eccedenza di calore verso la superficie. Pat non sapeva, però, se quelle correnti avrebbero continuato a fluire anche col sole alto.
All’esterno, la polvere continuava a frusciare, e all’improvviso Pat si ricordò di una antica clessidra che gli avevano mostrato quand’era bambino. Prima dell’invenzione dell’orologio, le giornate di milioni di uomini erano state divise in ore dallo scorrere dei granelli di sabbia. Ma certo nessuno prima di quel momento aveva mai misurato l’intero arco della propria vita nell’intensità di un getto di polvere.
A Clavius City, l’amministratore capo Olsen e il commissario del Turismo Davis avevano appena terminato di conferire con l’Ufficio Legale. Non era stata una riunione allegra. Si era discusso soprattutto sulle dichiarazioni di scarico di responsabilità approvate dai turisti prima di salire a bordo del Selene. Davis, che era stato contrario a quelle clausole, per timore che spaventassero i turisti, adesso era ben contento che i legali avessero insistito, e meno male che le autorità di Porto Roris avevano rispettato scrupolosamente la procedura. Di solito quelle questioni venivano trattate come formalità senza importanza, e tranquillamente ignorate. Invece c’era l’elenco completo delle firme dei passeggeri del Selene, con una sola eccezione sulla quale i legali stavano ancora discutendo.
Il commodoro in incognito era stato messo in lista come R.S. Hanson, e ora pareva che avesse addirittura firmato con quel nome. D’altra parte, la firma era così illeggibile che poteva anche essere «Hansteen». Per decidere su quel punto, bisognava attendere che dalla Terra venisse spedito un facsimile della firma del commodoro. Comunque, la cosa aveva un’importanza secondaria; dato che il commodoro viaggiava per un incarico ufficiale, l’Amministrazione era tenuta ad accettare piena responsabilità nei suoi riguardi. Quanto agli altri passeggeri, c’era una responsabilità morale, se non legale.
Soprattutto, bisognava fare ogni sforzo per ritrovare i corpi e dare loro una sepoltura. Quel problemino era stato scaricato sulle braccia dell’ingegnere capo Lawrence, che si trovava ancora a Porto Roris.
Lawrence non aveva mai accettato un incarico con minore entusiasmo. Se ci fosse stata la più piccola speranza che i passeggeri del Selene fossero vivi, sarebbe stato disposto a smuovere cielo, terra e luna per salvarli. Ma dato che erano morti, non vedeva il motivo di rischiare altre vite per rintracciarli ed estrarre le salme. Tra l’altro, quei colli eterni gli sembravano una sepoltura degnissima per chiunque.
Che fossero morti, Lawrence non ne dubitava affatto. Il lunamoto si era verificato proprio nell’ora in cui il Selene avrebbe dovuto iniziare il percorso di ritorno dal Lago del Cratere, e la gola era interamente ostruita da enormi massi. Il più piccolo di quei macigni sarebbe stato sufficiente a schiacciare il battello come una nocciolina, e i passeggeri dovevano essere morti nel giro di pochi secondi, appena l’aria era sfuggita dallo scafo. Se, con una probabilità su un milione, il Selene non fosse rimasto schiacciato, la radio avrebbe continuato a trasmettere il suo segnale automatico. Ma siccome nemmeno quello arrivava, era evidente che il disastro era stato totale.
Con tutto il tatto possibile, perché l’amministratore capo non era tipo da accogliere un «no» col sorriso sulle labbra, Lawrence cominciò a stendere il suo rapporto. In sintesi, si sarebbe potuto riassumerlo così: A) l’impresa era quasi certamente impossibile. B) Ammesso che fosse possibile, sarebbe costata un centinaio di milioni e forse avrebbe compromesso altre vite umane. C) In ogni caso, non valeva la pena di tentarla.
Ma siccome tanta brutale franchezza gli avrebbe alienato le simpatie di tutti, e del resto le ragioni andavano illustrate e chiarite, venne fuori un rapporto di tremila parole.
Lawrence era intento a dettarlo quando il telefono squillò.
«C’è Lagrange II in linea, ingegnere» disse la centralinista. «Un certo dottor Lawson vuole parlare con voi.»
Lawson? E chi diavolo era? Poi l’ingegnere capo ricordò: era l’astronomo che stava facendo ricerche col telescopio. Eppure ormai doveva essere stato avvertito che…
L’ingegnere non aveva mai avuto la fortuna, o la sfortuna, di conoscere il dottor Lawson. Non sapeva perciò che l’astronomo era un giovanotto molto nevrastenico e molto intelligente, ma soprattutto molto ostinato.
Lawson aveva appena cominciato a smantellare il suo congegno, quando si era fermato per riflettere meglio. Già che, praticamente, quel toso complicatissimo era ormai montato, tanto valeva provare a usarlo, così, a titolo di semplice curiosità scientifica.
Lawson era talmente stanco che stava in piedi unicamente per caparbietà. Se l’apparecchio non avesse funzionato subito, avrebbe rimandato la prova a più tardi e sarebbe andato a farsi prima una buona dormita. Ma per uno di quei casi fortunati che talvolta premiano i lavoratori coscienziosi, la prova riuscì benissimo; qualche ritocco di poco conto fu sufficiente perché il Mare della Sete cominciasse ad apparire sullo schermo.
Ecco, le zone luminose indicavano le aree relativamente calde, quelle oscure le regioni fredde. Quasi tutto il Mare della Sete era buio, salvo una fascia che il sole aveva già cominciato a illuminare. Ma in quell’oscurità, osservando meglio, Lawson intravide alcune linee lievissime, che scintillavano come tracce di lumache in un giardino illuminato dalla Luna.
Si trattava senza alcun dubbio della scia di calore lasciata dal Selene, e si vedevano anche, molto più fioche, le tracce a zigzag delle due slitte che continuavano a cercare il battello. Tutte quelle linee convergevano verso le Montagne Inaccessibili, e là svanivano oltre il campo visivo di Lawson.
L’astronomo era troppo stanco per esaminarle meglio, e del resto non ne valeva la pena, perché quelle tracce confermavano ciò che già si sapeva. L’unica soddisfazione, che per lui contava moltissimo, era di constatare che un altro complicatissimo congegno di sua costruzione aveva obbedito alla sua volontà. Lawson fotografò lo schermo, per l’archivio; poi se ne andò a letto perché moriva dal sonno.
Tre ore più tardi si svegliò, con l’impressione di non aver riposato affatto. Qualcosa di indefinibile lo preoccupava, gli dava un senso d’inquietudine. Come il lieve fruscio della polvere in movimento aveva disturbato Pat Harris nel Selene sepolto, così, a cinquantamila chilometri di distanza, Tom Lawson era stato ridestato dalla sensazione di aver trascurato qualcosa. La mente umana ha molti cani da guardia; a volte abbaiano senza motivo, ma un uomo di buon senso non ignora mai i loro avvertimenti.
Ancora assonnato, Lawson lasciò la celletta che gli serviva da camera a bordo del Lagrange II, si agganciò alla più vicina cintura di sicurezza e fluttuò nei corridoi senza gravità fino a che ebbe raggiunto (‘Osservatorio. Là, felicissimo di constatare che non c’era nessuno dei colleghi, si sistemò davanti agli strumenti che erano l’unico suo amore.
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