Il citofono ronzò sul tavolo, e il sergente fece un cenno a Crombie-Carson. Lui si tolse gli occhiali, se li infilò in tasca e entrò nella sala conferenze, dov’erano seduti tre uomini. Uno di loro era uno sconosciuto, in abito scuro.
«Il dottor Rea del… sì, del Ministero della Difesa» disse Alison. «È venuto da Londra per rivolgervi qualche domanda sul caso Hutchman.»
Crombie-Carson gli strinse la mano. «Molto lieto. Avevo immaginato che forse sarebbe venuto qualcuno da Whitehall.»
«Sì?» disse incuriosito Rea. «Cosa ve l’ha fatto pensare?»
«Il lavoro che Hutchman svolgeva alla Westfield. Un esperto di missili teleguidati e implicato in maneggi sospetti con un gruppo di comunisti. Parrebbe del tutto ovvio…»
Rea sembrò soddisfatto. «Ah, sì. Dunque, voi lo avete interrogato in questa sede per molte ore.»
«È così.»
«Parlava liberamente?»
Crombie-Carson corrugò la fronte, per capire dove l’altro voleva arrivare. «Sì, parlava liberamente, ma il problema era quanto di ciò che diceva era vero.»
«Senz’altro. Immagino che avrà cercato di nascondere qualche cosa, ma come ha parlato di sua moglie?»
«È tutto nel verbale» disse Crombie-Carson. «Comunque non ha detto molto.»
«Sì, ne ho una copia, però voi gli avete parlato prima dell’interrogatorio e siete abituato a leggere tra le righe, ispettore Crombie-Carson. Vi siete fatto l’idea che la signora Hutchman fosse immischiata in questo affare? A parte il fatto che si tratta di suo marito, naturalmente.»
«No, lei non c’entra.» Crombie-Carson pensava alla moglie di Hutchman, così delicata e abbronzata, e si chiedeva quale follia avesse travolto il marito.
«Ne siete certo?»
«Ho parlato a Hutchman per diverse ore. E anche a sua moglie, abbastanza a lungo. Non sa niente della faccenda.»
Rea diede un’occhiata a Alison e l’Ispettore Capo fece un segno di assenso, appena percettibile. Crombie-Carson provò uno slancio di gratitudine per il suo superiore. Per lo meno non avrebbe permesso che quella ridicola faccenda del materasso oscurasse vent’anni di servizio.
«Va bene.» Rea si guardò le mani ben curate, anche se deturpate da macchie color sabbia, dovute al fegato. «Secondo voi, com’erano i rapporti tra Hutchman e sua moglie?»
«Non molto buoni. Quella Knight…»
«Non c’erano legami affettivi, insomma.»
«No, non è questo» disse in fretta Crombie-Carson. «Ho avuto l’impressione che si creassero l’inferno, tra loro.»
«È probabile che Hutchman cerchi di mettersi in contatto con lei?»
«Forse.» Crombie-Carson aveva gli occhi affaticati, ma resistette all’impulso di infilare gli occhiali. «Ma forse potrebbe farle più male non cercandola. Tengo d’occhio la casa dei suoi, nell’eventualità che…»
«Abbiamo ritirato gli uomini» disse il Sovrintendente Tibbett, intervenendo per la prima volta. «Il dipartimento del dottor Rea ha assunto in proprio la responsabilità di sorvegliare la casa della signora Hutchman.»
«Ma era necessario?» Crombie-Carson si mostrò offeso, per far vedere agli altri che aveva ancora fiducia nei suoi mezzi.
Rea annuì. «I miei uomini hanno più esperienza, in questo tipo particolare di operazioni.»
«Va bene. E il controllo telefonico?»
«Ci siamo assunti anche quello. Prendiamo in mano noi l’intera operazione. Sapete quanto sia delicato il campo dei missili teleguidati, ispettore.»
«Certamente.»
Quando, poco dopo, uscì dalla sala conferenze, Crombie-Carson era contento che non si fosse parlato della fuga di Hutchman, ma si era convinto che il caso avesse molte altre ramificazioni di cui non gli avevano parlato.
In casa Atwood c’erano diversi pensionati, ma Hutchman era l’unico ad avere la pensione completa, per cui fu invitato a prendere i pasti in cucina, con il resto della famiglia. Sarebbe stato molto più allegro, per lui, gli aveva fatto notare la signora Atwood, che starsene da solo in una camera che, oltretutto, non era facile da riscaldare. Hutchman era talmente assillato dalle sue preoccupazioni, che i discorsi degli altri arrivavano fino a lui come un balbettio privo di senso. Aveva i suoi dubbi sulla qualità dei pasti. Comunque, dopo un’intera giornata trascorsa nella stanza a fiori, l’idea di potersi scaldare davanti a un caminetto gli suonò più attraente. E poi, c’era il fatto che non voleva assolutamente comportarsi in modo sospetto o furtivo.
Si rase le guance e i baffi e, regolando la nuova barba, uscì sul pianerottolo. Solo cercando di chiudere la porta, scoprì come mai la chiave era piegata in modo così strano. La serratura era bloccata sull’interno della porta e la chiave, nonostante fosse storta, girava bene da lì ma dall’esterno superava lo spessore del battente. Insomma, era possibile chiudersi dentro, ma non bloccare la porta quando si usciva dalla stanza.
Spinto da un’intuizione improvvisa di come operavano le menti non-Hutchman su piani di esistenza non-Hutchman , Lucas scese le scale e aprì, a titolo di prova, la porta della cucina. Una ventata di aria calda lo investì dalla stanza che era per larga parte occupata da una tavola preparata per quattro. La signora Atwood e il ragazzo, Geoffrey, erano già seduti a tavola: un uomo enorme, l’individuo più grosso che Hutchman avesse mai visto, era in piedi, con la schiena rivolta al fuoco. Il suo corpo enorme era fasciato da un maglione che non nascondeva i muscoli degni di un cavallo da tiro.
«Entrate pure» disse con una voce da onda d’urto. «E chiudete la porta: fate entrare una valanga d’aria.»
«D’accordo.» Hutchman entrò e, in mancanza di presentazioni, concluse che il gigante era il signor Atwood. «Dove posso…»
«Qui vicino a Geoffrey» disse la signora Atwood. «Mi piace avere tutti i miei ragazzi sotto gli occhi.» Scoperchiò una pentola di smalto bianco e cominciò a servire l’umido nei piatti bordati d’azzurro. Hutchman era molto attento al ragazzino seduto accanto a lui, un minuscolo ominide alto all’incirca come suo figlio David, con il respiro lento e faticoso di chi soffre d’asma. Cercò, senza riuscirci, di attirare il suo sguardo.
«Ecco, signor Rattray» disse la signora Atwood, chiamandolo con il nome che aveva dato. Quando stava per dargli il piatto, suo marito si scostò dal caminetto.
«Quello non basta a riempire lo stomaco di un uomo» tuonò. «Dagliene ancora, Jane.»
Hutchman prese il piatto. «No, grazie, ne ho abbastanza.»
«Sciocchezze!» La voce di Atwood era talmente forte che Hutchman sentì il tavolo vibrare sotto la sua mano. Il ragazzino sussultò. «Non badargli, Jane. Riempigli il piatto.»
«Ma vi assicuro…» Hutchman smise di parlare vedendo sulla faccia della signora Atwood un’espressione supplichevole, e accettò che gli mettesse nel piatto, in cima alla porzione abbondante che gli aveva già servito, un altro po’ di stufato.
«Buttate giù tutto. Rifatevi un po’.» Atwood prese la montagna di stufato che gli veniva servita e si mise a mangiarla col cucchiaio. «E anche tu mangia, Geoffrey.»
«Sì, papà» disse il ragazzino. E cominciò a mangiare.
Ci fu un silenzio rotto soltanto da una specie di brusio di folla in lontananza che, come dopo capì Lucas, veniva dal petto di Geoffrey. Chiaramente il ragazzo era intimorito da suo padre, e Hutchman cercava di immaginare come doveva apparire quel gigante a un ragazzo di sette anni. Enorme, spaventoso, incomprensibile. Durante la giornata silenziosa trascorsa nella camera da letto, aveva impiegato qualche ora a mettersi al posto degli altri, e aveva trovato l’esperienza sconvolgente. C’era, per esempio, il problema dell’infedeltà coniugale. Anche nell’ultimo quarto del ventesimo secolo, molti uomini restavano sconvolti scoprendo che la moglie li tradiva. Ma come poteva riuscire un uomo a capire il punto di vista di una donna? Supponendo che la situazione si rovesciasse e che fosse la donna a essere la cacciatrice? In quel momento si accorse che Atwood aveva pronunciato il suo falso nome.
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