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Bob Shaw: Uomo al piano zero

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Bob Shaw Uomo al piano zero

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Immaginate di aver costruito un apparecchio (sul tipo di una radio-trasmittente) capace di emettere impulsi capaci a loro volta di innescare la ben nota reazione a catena in tutte le ogive nucleari attualmente esistenti in tutte le basi atomiche del mondo. Per costruire un apparecchio del genere dovreste indubbiamente aver risolto dei problemi scientifici d’una certa difficoltà... Ma se ci pensate un momento vi renderete conto che quelle difficoltà erano niente di fronte al problema che vi aspetta adesso (e che aspetta il protagonista di questo romanzo): quando e in che modo vi proponete di utilizzarlo, il vostro benefico apparecchio?

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Bob Shaw

Uomo al piano zero

PROLOGO

Il mio dito sfiora il pulsante nero.

Fuori della finestra, la strada sembra assolutamente tranquilla, ma non mi faccio illusioni: la morte è là, in agguato. Credevo di essere pronto ad affrontarla e invece una strana timidezza si è impadronita di me. Ho già rinunciato alla vita, ma sono ancora riluttante a morire. L’unica situazione analoga che conosca è quella di un uomo il cui matrimonio sta per naufragare, e io posso dirlo con una certa sicurezza, ma che non ha lo slancio né l’energia per l’adulterio. Guarda un’altra donna con intenzione, ma spera che sia lei a fare il primo passo perché lui non ce la fa. A questo punto faccio un confronto con il sergente; la sua consegna è rigidissima. Allora esito, sulla soglia di uno dei diecimila ingressi della morte.

Il mio dito sfiora il pulsante nero.

Anche il cielo sembra pacifico, ma non si sa mai. Lassù, nella volta d’acciaio spazzata dal vento, un apparecchio potrebbe sganciare da un momento all’altro il sole fabbricato dalle mani dell’uomo. Forse, in questo preciso momento, un missile sta penetrando nell’atmosfera superiore, tra un nugolo di satelliti spia e di moduli di razzi a caduta lenta. In questo caso, insieme a me salterebbe per aria la città intera, ma la mia coscienza ha il coraggio di prendere il peso di settantamila morti, per lo meno finché c’è tempo per adempiere al voto, prima che la sfera di fuoco scenda ondeggiando e allargandosi lentamente sulla terra.

Finché terrò premuto il pulsante nero.

Il mio braccio sinistro pende inerte, il sangue caldo scorre sul palmo della mano e mi invita a stringere il pugno, a non abbandonare la vita. Non riesco a trovare, nel tessuto della manica, il foro della pallottola: le fibre si sono richiuse perfettamente come le piume di un uccello. È strano. Ma, in realtà, che cosa ne so di queste faccende? E come ho fatto io, Lucas Hutchman, matematico non particolarmente famoso, a cacciarmi in questa situazione? Indubbiamente sarebbe istruttivo riconsiderare gli avvenimenti delle scorse settimane, ma sono stanco e devo fare attenzione a non rilassarmi troppo.

Perché devo essere pronto a premere il pulsante nero…

1

Hutchman prese dal tavolo il foglio protocollo, gli diede un’occhiata e si accorse che stava succedendo qualcosa di molto strano alla sua faccia.

Una sensazione di gelo, partendo dalla radice dei capelli, si allargò, come un’ondata al rallentatore, sulla fronte, le guance e il mento. Dove arrivava l’onda gelida, la pelle pizzicava dolorosamente, e lui aveva l’impressione che i singoli pori, uno dopo l’altro, si aprissero e richiudessero come folate di vento in un campo di grano. Si portò la mano alla fronte e si accorse che era appiccicosa, madida di sudore freddo.

Sudo freddo, pensò turbato, aggrappandosi volentieri a quel particolare di nessun rilievo. Si può davvero sudare freddo, non è un modo di dire!

Si asciugò la faccia, poi si alzò stendendo le gambe. Erano molli. Il foglio di carta sul tavolo rifletteva il sole con una luce malevola. Hutchman guardò le colonne di numeri che aveva allineato sulla pagina e, di colpo, la sua mente rifiutò di pensare a quello che significavano. Che scrittura anonima! In certi punti le cifre sono tre, quattro volte più grosse che in altri. È un segno di mancanza di carattere.

Macchie di colore indefinito, malva e zafferano, vagavano dietro la parete di vetro molato che lo separava dalla sua segretaria. Afferrò il rettangolo di carta e l’infilò nella tasca della giacca, ma la macchia di colore non veniva dalla sua parte, si spostava verso il corridoio. Hutchman aprì la porta e mise la testa nella stanza di Muriel Burnley. La segretaria aveva la faccia guardinga e contegnosa della direttrice di un piccolo ufficio postale su un corpo stranamente sexy che era, per lei, soltanto una ragione di imbarazzo.

«Uscite?» Hutchman disse la prima parola che gli venne in mente, mentre si guardava attorno con aria imbarazzata, nell’ufficio troppo angusto e ingombro di classificatori color verde oliva. I manifesti turistici e le piante con cui lo aveva arredato Muriel aumentavano, se possibile, l’atmosfera di claustrofobia. Lei guardò, con aria perplessa e un po’ risentita, la sua mano destra sulla maniglia della porta e la tazza di caffè con il pezzo di cioccolata che reggeva nella sinistra. Poi fissò l’orologio che segnava le dieci e mezzo, ora in cui, di solito, interrompeva il lavoro e passava il quarto d’ora di intervallo in corridoio in compagnia di un’altra segretaria. Non disse niente.

«Volevo soltanto sapere se Don è in ufficio» inventò Hutchman. Don Spain era il ragioniere che aveva l’ufficio di fronte a quello di Muriel più i servizi in comune.

«Lui!» La faccia di Muriel, dietro le lenti color vetro bruno-antico che separavano i suoi occhi dal resto del mondo, era sprezzante. «Sarà qui solo tra mezz’ora: oggi è martedì.»

«E che cosa succede il martedì?»

«È il giorno dell’altro lavoro.» Muriel parlava con ostentata lentezza.

«Ah!» In quel momento Hutchman si ricordò che Spain teneva i conti di una panetteria dall’altra parte della città, e che di solito se ne occupava il martedì. Avere un secondo impiego, gli faceva spesso notare Muriel, voleva dire infrangere le norme della società! In realtà, la causa vera della sua irritazione era che Spain, per colpa della panetteria, le dava tutte le sue lettere da battere.

«Va bene, allora. Andate pure a prendervi il caffè.»

«Stavo andandoci» gli rispose lei, chiudendosi la porta alle spalle con decisione.

Hutchman ritornò in ufficio e tirò fuori dalla tasca il foglio coperto di simboli matematici. Reggendolo per un angolo, sul cestino metallico della carta, gli diede fuoco, con l’accendino da tavolo. La carta bruciava stentatamente creando un quantità enorme di fumo irritante, quando la porta dell’ufficio di Muriel si aprì. Ombre grigie si mossero dietro il vetro smerigliato, e la chiazza confusa di una faccia spiò nella stanza. Hutchman lasciò andare la carta, spense la fiamma e, velocemente ricacciò i resti in tasca. Un secondo dopo Spain si affacciò nell’ufficio, con il solito sorriso da cospiratore.

«Ah, sei qui, Hutch» disse con voce roca. «Come te la passi?»

«Non troppo male.» Hutchman era piuttosto agitato e consapevole che l’altro se ne accorgeva. «Sì, insomma, non c’è male.»

Spain sorrise ancor più apertamente quando sentì che c’era sotto qualcosa. Era un uomo basso, con un inizio di calvizie e l’aria disordinata, con le guance grigio-ardesia e una smania quasi patologica di sapere tutto il possibile sulla vita privata dei colleghi. Preferiva il materiale di natura scandalosa, ma, in mancanza d’altro, era disposto ad accettare qualunque tipo d’informazione. A Hutchman con gli anni, era venuto un timore quasi morboso di quell’ometto e dei suoi metodi pazienti, inquisitori.

«Qualcuno mi ha cercato, stamattina?» chiese Spain, entrando nell’ufficio con aria decisa.

«Che io sappia no. Stattene pure tranquillo per un’altra settimana.»

Spain incassò l’allusione all’altro lavoro e, per un secondo, guardò Hutchman con intenzione. Lui improvvisamente, si sentì contaminato e rimpianse di aver detto quelle parole che, in un certo senso, lo associavano alle attività di Spain.

«Ma che odore c’è, qua dentro?» Spain era preoccupato. «C’è qualcosa che brucia?»

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