«Avete una stanza libera?» Hutchman guardò nell’ingresso male illuminato, pavimentato in linoleum marrone, con la scala buia che saliva agli altri piani. Rimpianse di non poter tornare a casa sua.
«Abbiamo una stanza, ma è mio marito che di solito se ne occupa: in questo momento non c’è.»
«Va bene» disse Hutchman, sollevato. «Proverò altrove.»
«Ma non importa. Il signor Atwood, mio marito, tornerà presto.» La donna si scostò e gli fece segno di passare. Lucas entrò. Le tavole del pavimento scricchiolarono, sotto i suoi passi. All’interno c’era un forte profumo di deodorante.
«Fino a quando intendete fermarvi?» chiese la signora Atwood.
«Fino a…» Hutchman si riprese. «Un paio di settimane, all’incirca.» Salì per vedere la stanza che, neanche a farlo apposta, era all’ultimo piano: piccola ma pulita, e il letto aveva due materassi. Faceva pensare che fosse comodo, anche se un po’ troppo alto. Lucas chiese, ottenendo risposta affermativa, di avere la pensione completa, e cioè tre pasti al giorno, e che la signora Atwood, dietro un piccolo supplemento, gli tenesse in ordine la biancheria. «Va bene» disse poi, sforzandosi di sembrare entusiasta. «Prendo la stanza.»
«Sono sicura che vi troverete bene.» La signora Atwood si toccò i capelli. «Tutti i miei ragazzi si trovano sempre bene.»
Hutchman sorrise. «Porto su la valigia.»
Si sentì un rumore sul pianerottolo e il ragazzino entrò, portando la valigia.
«Geoffrey! Lo sai che non devi…» la signora Atwood si voltò verso Hutchman. «Non sta bene, sapete. Asma.»
«È vuota» dichiarò Geoffrey, buttandola con noncuranza sul letto. «Ce la faccio benissimo a portare una valigia vuota, mamma.»
«Ah…» Hutchman guardò la signora Atwood. «Non è completamente vuota, ma ne ho lasciato buona parte del contenuto in macchina.»
Lei annuì. «Vi spiacerebbe darmi un anticipo?»
«No, di certo.» Hutchman sfilò tre banconote da cinque sterline dal mazzo, senza toglierlo dalla tasca, e gliele tese. Quando la padrona fu uscita lui chiuse la porta, notando con sorpresa che la chiave era piegata. Era una chiave sottile, per niente complicata, con un’asta lunga che, dove era piegata, presentava un alone azzurrognolo, come se il metallo fosse stato scaldato e incurvato di proposito. Hutchman scosse la testa, stupito. Poi buttò il giubbotto sul letto e fece il giro della stanza, cercando di scacciare la nostalgia che cominciava a riassalirlo. Aprì con difficoltà l’unica finestra e si sporse all’infuori. L’aria fredda della notte gli diede un senso di vertigine, procurandogli una sensazione strana, come quella di chi sogna di volare. Gli sembrava di avere la testa dissociata dal resto del corpo, fluttuante nel buio, accanto a un intrico misterioso di grondaie e di tubi, di camini e di davanzali. Tutto in giro e più in basso brillavano le finestre illuminate: certe avevano le tende tirate mentre altre lasciavano intravedere l’interno di orrende stanzette anonime. La situazione fisica, con quella sua testa che sporgeva invisibile e disincarnata vicino alle pareti di un cañon d’incubo, non era molto lontana dalla matrice di orrore che era diventata la sua vita. Rimase così, per un tempo lunghissimo, finché il gelo gli arrivò alle ossa e lo fece tremare violentemente: Allora richiuse la finestra e andò a letto.
Quella sarebbe stata casa sua per una settimana, e già lui si chiedeva come avrebbe fatto a sopravvivere.
Ed Montefiore era abbastanza giovane per avere incominciato a lavorare ai calcolatori, e abbastanza vecchio per essere arrivato al vertice del suo settore, privo di un nome ben definito, del Ministero della Difesa.
Il fatto che fosse noto, nella misura possibile a un uomo della sua posizione, come un mago dei calcolatori, era più una questione di economia che una capacità particolare. In realtà, Montefiore aveva un istinto, un talento, un dono che gli permetteva di riparare qualunque tipo di macchina. Non gli importava di conoscere lo schema della macchina, e neanche di sapere a cosa serviva l’apparecchio. Se la macchina era guasta, bastava che ci mettesse su le mani, che entrasse in comunione con lo spirito di chi l’aveva costruita, per scoprire il guasto. Trovato il difetto, se in quel momento aveva voglia di farlo, sistemava rapidamente e facilmente ogni cosa, altrimenti spiegava a un altro cosa bisognava fare e se ne andava soddisfatto. Anzi, da quando aveva cominciato a sfruttare quella sua capacità particolare, aveva smesso quasi subito di eseguire direttamente le riparazioni. Guadagnava di più diagnosticando i guasti che riparandoli.
E di tutti i campi a cui era possibile applicare il suo talento, quello dei calcolatori, si era detto Montefiore, era sicuramente il più redditizio. Aveva passato diversi anni a diagnosticare i guasti, spostandosi nel giro di un’ora da un capo all’altro del mondo, per curare i calcolatori e le batterie dei calcolatori da malattie che i tecnici locali non erano riusciti a sistemare, facendo un mucchio di soldi e conducendo una vita principesca in mezzo a una quantità di cariche.
Proprio quando cominciava ad averne abbastanza di quella vita, il governo aveva fatto i primi approcci alla lontana, a proposito del progetto MENTORE. Come individuo, Montefiore detestava l’idea di un calcolatore unico, immenso, che nella sua banca a dati multipli contenesse tutte le informazioni militari, sociali, finanziarie, criminali e industriali di cui aveva bisogno il governo per il controllo del paese. Però, come uomo dotato di un immenso talento che richiedeva sempre nuovi termini di confronto, si buttò nel progetto senza alcuna riserva. Non gli interessava minimamente la parte tecnica della costruzione della macchina, anche perché le varie parti componenti MENTORE erano relativamente convenzionali e solo collegate assieme diventavano eccezionali. Però tenere in perfetta efficienza coordinata quella struttura immane gli aveva dato una soddisfazione quasi completa. Naturalmente gli aveva anche conferito promozioni, responsabilità e un certo tipo di potere. Nessun cervello umano era in grado di assimilare i dati accatastati nel MENTORE per più di una frazione di minuto, però Montefiore era l’unico ad avere libero accesso alla macchina e sapeva scegliere tra le varie informazioni. In realtà, conosceva tutto quello di cui valeva la pena.
Adesso, mentre se ne stava alla finestra del suo ufficio, il dato base nella sua mente era che stava succedendo qualcosa di molto grave. Un’ora prima gli aveva telefonato il segretario del ministro, con un messaggio molto semplice: Montefiore era pregato di rimanere in ufficio fino a nuova chiamata. Non c’era, nella comunicazione, niente di particolarmente insolito, però il messaggio gli era stato comunicato sul telefono rosso. Montefiore, una volta, aveva fatto il conto che, se un giorno il telefono rosso avesse realmente suonato, v’erano sette probabilità contro una che i missili intercontinentali stessero per fare il balzo verso gli strati superiori dell’atmosfera. Le parole di McKenzie l’avevano in parte tranquillizzato, però gli avevano lasciato un brutto presentimento.
Montefiore era un uomo di statura media, con grosse spalle muscolose e una faccia da ragazzo. Aveva il mento piccolo, ma deciso. Esaminandosi nello specchio del caminetto bianco, decise malinconicamente che, per qualche settimana, doveva bere meno birra. Poi cominciò a chiedersi se l’appello del telefono rosso non avesse messo fine alle bevute di birra, sue e di tutti gli altri. Tornò alla finestra e, mentre guardava i tetti degli autobus che avanzavano lentamente, la segretaria gli annunciò al citofono che il signor McKenzie e il generale Finch stavano per arrivare. Finch era a capo di un gruppo di uomini che, tra le altre mansioni, potevano decidere se premere o meno certi pulsanti. Montefiore, in teoria non avrebbe dovuto neppure conoscere il legame esistente tra Finch e il Comando strategico dell’Aria. Provò un attimo di sgomento nel sentire il nome del generale, e rimpianse di non essere rimasto nell’ignoranza primitiva.
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