Il robot portò boccali di birra anche per David e Corcoran. Poi posò sul tavolo un tagliere di legno e un coltello e depose sul tagliere una grossa pagnotta. — Mangiate — disse. — È un cibo buono, salutare. C'è ancora della minestra, se ne volete.
Corcoran tagliò due fette di pane, una per sé e una per David. Inzuppò la sua fetta nella minestra e ne assaggiò un boccone. Era eccellente. E la birra era squisita. Tutt'a un tratto, e senza nessuna ragione, si sentì immediatamente felice.
David aveva ripreso a parlare. — C'è questa faccenda degli Infiniti. Abbiamo udito il nome, ma non sappiamo che cosa siano.
Il vecchio dalla barba color della brina rispose. — Anche noi abbiamo udito soltanto voci. Sembra che sia un movimento religioso, ma ci sono indicazioni che non sia del tutto umano. Si parla di missionari alieni.
— Non ci sono prove che ci permettano di arrivare a una conclusione — disse Barba Riccia. — Le idee nascono, fioriscono per qualche tempo e poi svaniscono. La smaterializzazione, dite: ma come si fa per ottenerla?
— Credo che se l'umanità volesse smaterializzarsi, un modo lo troverebbe — disse Baffone. — Già molte volte l'uomo ha ottenuto dei grandi risultati che avrebbe fatto meglio a non ottenere.
— Tutto si riaggancia — disse Barba di Brina, parlando con un tono da giudice del tribunale — a una caratteristica umana che abbiamo molto meditato nelle nostre lunghe sere. L'insaziabile tendenza dell'uomo verso uno stato di felicità.
Corcoran non ascoltò la conversazione. Raccolse con un pezzo di pane le ultime gocce di minestra, poi vuotò il boccale. Si raddrizzò e si appoggiò allo schienale: era sazio.
Si guardò attorno e vide per la prima volta come fosse fatta la stanza: era poco più di una stalla. Era piccola e spoglia, senza ornamenti, senza lussi. L'idea di abitazione che poteva venire in mente a un robot: uno spazio riparato dal freddo. La costruzione era ben fatta: ottima fattura, se era stata fatta dai robot. Il tavolo e le sedie erano di legno robusto e capace di durare per secoli, ma a parte l'onesto lavoro e l'onesto legno, non c'era molto. Le tazze e i boccali erano di terracotta; le candele erano fatte a mano. Perfino i cucchiai erano di legno scolpito e lucidato.
Eppure quegli uomini di villaggio che sedevano attorno a un rustico tavolo, in quella stanza disadorna, dibattevano problemi che andavano assai al di là della loro possibilità d'intervento, facendo seriamente le loro considerazioni, anche quando non avevano alcun dato su cui basarsi. Comunque, si disse, non poteva essere lui a scagliare la prima pietra. Non c'era niente di strano, nel comportamento di quei vecchi. Era un'antica e onorata tradizione che riandava agli albori della storia. Nell'antica Atene gli sfaccendati si riunivano nell'agorà per dedicarsi ad alate discussioni; secoli più tardi, negli Stati Uniti, altri sfaccendati sedevano sotto il porticato, davanti ai negozi di campagna, e facevano discorsi altrettanto pomposi quanto quelli degli ateniesi. Nei club londinesi ulteriori sfaccendati facevano lo stesso tipo di discorsi davanti a un bicchiere di liquore.
L'ozio portava alla chiacchiera, si disse, e gli uomini si lasciano ipnotizzare dall'intelligenza dei loro pensieri. Gli uomini di quel villaggio erano sfaccendati: li aveva resi tali la loro società dominata dai robot.
David si alzò, dicendo: — Temo che sia giunto il momento di andarcene. Ci fermeremmo di più, se potessimo, ma dobbiamo riprendere il cammino. Vi ringraziamo del cibo, della birra e della conversazione.
Gli uomini della tavola non si alzarono. Non tesero la mano e non dissero addio. Sollevarono lo sguardo e annuirono, poi si immersero nuovamente nelle loro interminabili discussioni.
Corcoran si alzò a sua volta e si avviò verso la porta. Il robot li precedette e aprì loro il battente.
— Grazie della minestra e della birra — disse David.
— Tornate pure quando volete — disse il robot. — Siete i benvenuti.
E si trovarono nella strada, con il robot che chiudeva la porta dietro di loro. In strada non c'era nessuno.
— Abbiamo saputo quello che volevamo — disse David. — Adesso sappiamo che gli Infiniti sono già qui e che hanno già dato inizio alla loro missione.
— Mi spiace per quei poveretti — disse Corcoran. — Non hanno niente da fare, solo starsene laggiù seduti a parlare.
— Non c'è bisogno di compatirli — disse David. — Forse non lo sanno, ma sono felici.
— Può darsi, ma è un brutto modo di finire, per la razza umana.
— Forse è la fine che la razza umana ha sempre cercato. Per tutta la storia, l'uomo ha sempre cercato qualcuno che lavorasse al posto suo. Prima il cane, il bue, il cavallo. Poi le macchine, e infine i robot e i computer.
La sera cominciava ad allungare le sue ombre sulla valle, quando raggiunsero il prato dove si era posato il viaggiatore.
Quando furono accanto alla macchina una nebbiolina di punti scintillanti si avvicinò a loro. Corcoran fu il primo a notarla, e si fermò. Sentì che gli si rizzavano i capelli per un'atavica paura, poi capì cos'era.
— David — disse, parlando piano — abbiamo un ospite.
David rimase senza fiato per la sorpresa, poi disse: — Henry, siamo lieti di vederti. Ci auguravamo che ci trovassi.
Henry attraversò il prato e si avvicinò a lui.
“Avete lasciato una lunga scia” disse. “Ho dovuto fare molta strada”.
— Dove sono finiti gli altri? In che viaggiatore eri?
“Non ero in nessun viaggiatore” disse Henry. “Sono rimasto a Hopkins Acre. Sapevo che sareste andati tutti in posti diversi e che avrei dovuto trovarvi”.
— Perciò, sei partito da zero.
“Proprio così. E ho fatto bene, perché sono sorte complicazioni”.
— Comunque, ci hai trovato. E questo può essere l'inizio. Ma perché sei venuto a cercare proprio noi? Sapevi che eravamo in grado di badare a noi stessi. Invece avresti dovuto seguire Enid. È quella che ha meno esperienza e che corre più rischi.
“È quello che ho fatto” disse Henry “ma è scomparsa”.
— Come può essere? Enid ti avrà aspettato. Sa che la cerchi.
“No, non ha aspettato. Ha raggiunto la sua prima destinazione, e poi se n'è andata. Ho l'impressione che sia scappata via perché era minacciata dal mostro. Nel luogo della sua prima destinazione c'è il mostro, ed è distrutto”.
— Distrutto? Chi può averlo distrutto?
— Forse Boone — disse Corcoran. — Boone era con lei. L'ho visto che correva verso il viaggiatore di Enid, con il mostro alle calcagna. Intendevo aiutarlo, ma voi mi avete afferrato di peso e mi avete portato nel vostro viaggiatore.
“Lasciatemi finire” disse Henry. “Non interrompetemi con le vostre chiacchiere. C'è dell'altro”.
— E allora, parla — disse David irritato.
“Enid, quando è partita, era sola. Ne sono certo. Boone è rimasto laggiù”.
— Non riesco a crederci. Enid non lo avrebbe abbandonato in nessun caso.
“Non ne sono certo” disse Henry. “Sono soltanto mie deduzioni. Ho raggiunto la sua prima destinazione, nel lontano passato. Cinquantamila anni prima di Hopkins Acre nella parte sudovest del Nordamerica. Il viaggiatore era sparito, ma c'era ancora la sua scia. Il viaggiatore era partito circa una settimana prima”.
— La scia? — domandò Corcoran. — Cosa fa, vede la scia del viaggiatore?
— Non lo so — disse David. — E non lo sa neppure lui, secondo me, e quindi non vale la pena di chiederglielo. Ha delle facoltà che noi due non possediamo, e io non mi azzarderei a descriverle.
“Riesco a farlo” disse Henry. “Non so come faccio; non me lo sono mai domandato. Ma, adesso, mi lasciate continuare?”
— Prego — disse David.
“Mi sono guardato attorno. C'erano le tracce di un fuoco, molto recenti; due giorni, massimo quattro. E accanto c'era un tumulo di pietre. Sul tumulo c'era un foglio di carta, tenuto fermo da una pietra. Non ero in grado di sollevare la pietra e non ho potuto inserirmi tra pietra e carta per leggere ciò che era scritto. Suppongo che fosse un messaggio per eventuali nuovi arrivati. A poca distanza dal tumulo c'erano i resti del robot assassino, e poco più in là lo scheletro di una grande bestia: a quanto pareva, un bovino. Aveva un enorme paio di corna”.
Читать дальше